Non c’è solo la Putin connection ribadita a Napoli. Sull’atlantismo di Silvio Berlusconi gli Usa si interrogavano già nel lontano 1994 come dimostra un documento inedito della Cia. Pubblichiamo un estratto dell’ultimo libro di Andrea Spiri, “THE END: 1992-1994” (Baldini+Castoldi)
Le elezioni politiche del 27 e 28 marzo 1994 rappresentano uno spartiacque nella vicenda repubblicana. Di questo sono convinti gli uomini dei Servizi segreti Usa, meravigliati dalla piega che prende il confronto elettorale e dalla sua eccessiva virulenza. Un memorandum dell’Office of European Analysis della Cia, redatto a dieci giorni dall’apertura delle urne, sottolinea che in Italia si assiste a una campagna mediatica martellante, ma c’è poca enfasi sui contenuti, mancano discussioni sulle problematiche concrete e si fa largo ricorso a «violenti attacchi personali»: «Nonostante il declino delle ideologie politiche dopo la fine della Guerra fredda, in campagna elettorale i partiti stanno utilizzando le vecchie etichette per definirsi e per rappresentare gli avversari, con la destra che punta l’indice contro le solite abitudini del comunismo e il centro e la sinistra che paventano un ritorno del fascismo».
Sta di fatto che in ottica statunitense «né l’Alleanza dei Progressisti a guida Pds, né il Polo delle Libertà e del Buon Governo che ruotano intorno alla figura di Berlusconi hanno la certezza di raggiungere la maggioranza assoluta nelle Camere». E Forza Italia – che risulta comunque «avanti nei sondaggi» – si scontra con le difficoltà tipiche di un movimento nuovo «arrivato in gara tardi»: fatta eccezione per il «carisma» e per il «richiamo attrattivo» esercitato da Berlusconi, i candidati azzurri sono «poco conosciuti e radicati».
L’affermazione del centrodestra rappresenta pertanto lo scenario «meno probabile» tra quelli da valutare, anche perché, con il trascorrere dei giorni, «l’elettorato che vuole il cambiamento rimane colpito» dalle voci provenienti dalla Sicilia, che gli osservatori Usa declinano in termini di «prove circostanziate dei legami con la mafia di alcuni esponenti di Forza Italia», pur evidenziando che i magistrati «hanno pubblicamente negato che siano in corso delle inchieste».
Per gli americani è destinata così a prendere quota l’ipotesi dell’«esecutivo istituzionale sul modello dell’esperienza Ciampi», sostenuta in particolare da alcuni rappresentanti delle culture politiche tradizionali – «figure come il socialista Giuliano Amato, il democristiano Mino Martinazzoli, il centrista Mario Segni, il liberale Valerio Zanone e il repubblicano Giorgio La Malfa» – consapevoli di non avere possibilità di successo e dunque interessati a proporre una formula «che tuteli al meglio i loro interessi», aprendo anche «spazi di partecipazione nella compagine ministeriale».
L’assenza di vincitori potrebbe in definitiva condurre a questo sbocco, «certamente più verosimile» rispetto alla nascita di un governo di destra «che sarebbe condizionato dalle divisioni interne», o alla definizione di un «patto di centrosinistra» che assocerebbe l’immagine nuova del Pds a quella «screditata» dei vecchi partiti: tra i potenziali candidati alla guida di un «esecutivo di garanzia», gli analisti d’oltreoceano indicano il nome di Romano Prodi, il presidente dell’Iri.
A campagna elettorale quasi terminata, la diplomazia statunitense non esclude neppure un avvicinamento tra Bossi e Occhetto, un accordo post-voto per un «governo di sinistra moderata» che tenga dentro il Partito popolare di Martinazzoli, «sostenuto implicitamente dal cardinale Camillo Ruini», ed escluda Rifondazione comunista, i Verdi e La Rete.
In ogni caso, si guarda naturalmente a tutte le implicazioni per Washington: «Un governo istituzionale avrebbe vita breve e si dedicherebbe esclusivamente alle questioni domestiche, reclamando però maggiore visibilità internazionale da utilizzare a fini interni, con accresciute pressioni per un coinvolgimento al tavolo delle trattative su dossier importanti come quello della Bosnia; un’alleanza di centrosinistra a guida Pds vedrebbe nell’immediato il tentativo di proporsi come partner affidabile della Nato, ma nel lungo periodo si determinerebbero contrasti soprattutto sulle questioni della sicurezza come i diritti delle basi Usa; un esecutivo di centrodestra si caratterizzerebbe per l’approccio maggiormente nazionalista e assertivo, per una minore disponibilità a riconoscere la leadership americana, e Berlusconi, dal canto suo, farebbe degli interessi economici e finanziari l’elemento trainante della politica estera italiana».
[…] Alla vigilia del voto, aumenta il timore della Casa Bianca – e cresce il desiderio di rassicurazione – per le direttrici di marcia della politica estera italiana, «che vivrà un periodo di incertezza soprattutto nel lungo termine», scrivono gli agenti dell’intelligence. Un punto di vista che non collima con quello dell’Ambasciata di via Veneto, da cui giungono invece valutazioni differenti: nessun dubbio sulla «continuità» di indirizzo internazionale, «tutti i partiti si riconoscono nelle scelte qualificanti compiute dall’Italia, a parte Rifondazione comunista».
Intanto, fuori dai Palazzi della politica, «la vita continua, l’economia si muove, si tengono le sfilate di moda, suonano le campane delle chiese, gli appassionati di calcio attendono l’inizio dei mondiali che si giocheranno negli Stati Uniti». È l’immagine di un Paese che torna alla normalità, dopo un biennio vissuto con il fiato sospeso: «Nessuno azzarda previsioni catastrofiche se dovesse vincere uno schieramento piuttosto che un altro».
Questi concetti vengono ribaditi all’indomani del voto, che vede il successo del centrodestra ma soprattutto il trionfo, nel suo perimetro, di un movimento apparso per la prima volta sulle schede elettorali e dell’uomo che l’ha creato dal nulla.
[…] I diplomatici Usa raccontano che «tra la formazione più organizzata e quella più abile nell’utilizzo delle tecniche comunicative, ovvero tra il Pds e Forza Italia, vince il partito di Berlusconi», il quale ha saputo interpretare «lo spirito dei tempi nuovi», pur essendo in fin dei conti un figlio del «consociativismo» i cui successi imprenditoriali «si devono in parte alla vecchia politica del compromesso e della cooptazione».
Estratto dell’ultimo libro di Andrea Spiri, “THE END: 1992-1994. La fine della Prima repubblica negli archivi segreti americani” (Baldini+Castoldi)