L’Italia ha firmato un “contractual arrangement” con l’Ue con impegni specifici in materia di riforme, ben sapendo che solo se queste verranno attuate e saranno di qualità, i finanziamenti per gli investimenti verranno erogati. Il commento di Giuseppe Pennisi
La larga maggioranza che sostiene (forse più a parole che con fatti concreti) il governo Draghi è avviluppata su tre riforme: la più chiassosa e colorita è quella relativa alla concessioni balneari, si è quietato il rumore su quella della giustizia (soprattutto dopo la bassa partecipazione allo sciopero indetto dall’Associazione Nazionale Magistrati), e su quella del catasto che ha preso le sembianze di un fiume carsico in quanto raggiunto un accordo, sparisce e poi riappare.
All’origine c’è una scarsa comprensione di cosa è il Next Generation Eu (di cui il Pnrr è uno dei bracci operativi) e si continua a confondere il Pnrr con un grande “fondo strutturale” quali quelli finanziati da decenni dall’Unione europea, mentre si tratta di uno strumento totalmente differente. Il suo obiettivo è, invece, quello di permettere a Paesi a rischio di non poter stare al passo con il resto dell’Ue realizzando un programma di riassetto strutturale per aumentare produttività e crescita. L’Italia è il maggior destinatario dei finanziamenti e ha firmato più impegni poiché tra il 2000 e il 2019 è stato il solo Paese europeo il cui reddito reale per abitante è diminuito; nel 2000 eravamo sopra la media europea del 20%, mentre nel 2019 eravamo scesi sotto la media europea del 3%. Non sono le “regole europee” cha hanno provocato il declino del Paese (dato che altri Paesi dell’Ue sono cresciuti benissimo osservandole) ma la nostra scarsa produttività. La nostra partecipazione all’unione monetaria era (ed è) davvero a rischio (e lo è ancora se non realizziamo un effettivo riassetto strutturale), ma dato che siamo uno dei grandi Paesi fondatori, l’uscita metterebbe in pericolo l’intera costruzione.
Il meccanismo non è una novità nella finanza per lo sviluppo. Circa 50 anni fa, la Banca mondiale cominciò a sperimentare con prestiti legati a “riforme” nel cui quadro gli investimenti erano uno strumento per misure di politica pubblica atte a stimolare lo sviluppo. Una delle prime operazioni di questo genere fu un’ampia linea di credito alla Corea (il cui Pil pro-capite era la metà di quello dello Zambia; oggi è pari a quello dell’Italia) per il riassetto della politica della tecnologia: varie modifiche legislative mettevano in competizione centri di ricerca e università (anche nell’ambito del settore statale) e gli istituti venivano forniti di nuove attrezzature modernissime; secondo gli storici dell’economia, la linea di credito fu una molla importante per la piega presa dall’industria coreana.
Nel 1980, il “Rapporto Brandt”, dal nome del Cancelliere tedesco che presiedette una commissione internazionale per riflettere sulla finanza per lo sviluppo, teorizzò il finanziamento del “riassetto strutturale”, prestiti che potevano anche non prevedere il supporto di investimenti purché sostenessero “riforme” mirate a rimuovere ostacoli allo sviluppo. Più o meno in parallelo, una linea analoga venne presa dal Fondo monetario internazionale. I prestiti per il “riassetto strutturale” delle due istituzioni, pur se guardavano ambedue al medio e al lungo termine, avevano contenuti differenti: quelli della Banca miravano all’economia reale (o nella sua interezza o di particolari settori), mentre quelli del Fondo erano indirizzati a “riforme” della finanza pubblica, del tasso di cambio e del debito della Pubblica amministrazione.
È in questa ottica che l’Italia ha firmato un “contractual arrangement” con l’Ue con impegni specifici in materia di riforme e ben sapendo che solo se queste verranno attuate e saranno di qualità, i finanziamenti per gli investimenti verranno erogati.
Veniamo alla più chiassosa delle tre riforme: quella delle concessioni balneari. In Italia “l’uso di concessioni pubbliche per i beni pubblici, come le spiagge, non è stato ottimale”. “Ciò implica una significativa perdita di entrate visto che queste concessioni sono state rinnovato automaticamente per lunghi periodi e a tassi molto al di sotto dei valori di mercato”. Lo nota la Commissione europea nel Country Report sull’Italia incluso nel pacchetto di primavera del semestre europeo. Il rapporto stesso ricorda la riforma al riguardo già prevista nel Ddl concorrenza.
È addirittura dal 1942 che va avanti il difficile tentativo di bilanciare l’esigenza della libera concorrenza con quella di tutelare gli investimenti dei concessionari che nel corso dei decenni hanno contribuito al mantenimento delle nostre spiagge e fatto anche considerevoli profitti. Si parte dal codice della navigazione che, varato ottant’anni fa, ha stabilito che “nel caso di più domande di concessione relative allo stesso bene demaniale, l’amministrazione dovesse preferire quella che offriva le maggiori garanzie di proficua utilizzazione del bene e proponesse di avvalersene per un uso che rispondeva a un più rilevante interesse pubblico”. Nel 1952 è stata la volta del regolamento di attuazione che ha introdotto la possibilità di reclami o domande concorrenti per un bene già destinato. Nel 1993, con una modifica al Codice della navigazione, è stato inserito il “diritto di insistenza” volto a stabilire che i soggetti già titolari di concessioni balneari fossero preferibili a nuovi pretendenti, e che le concessioni venissero rinnovate automaticamente ogni 6 anni.
Questo assetto viene messo in discussione dalla sentenza n. 168 del 2005 del Consiglio di Stato (relativa a una concessione di un’area demaniale marittima sita nel Comune di Lignano Sabbiadoro). Ed è ancora in contrasto col “diritto di insistenza” che nasceranno le future contestazioni avanzate dall’Europa all’Italia, dopo il varo della direttiva Bolkestein.
La direttiva Bolkestein è una norma approvata nel 2006 che però non è entrata subito in vigore: gli Stati hanno avuto tempo per attuarla fino al 28 dicembre 2009. L’obiettivo della direttiva – che prende il nome dall’economista olandese del partito liberale (Vvd) Frederik Bolkestein, responsabile per il mercato interno ai tempi della Commissione Europea guidata da Romano Prodi – è quello di promuovere la parità di professionisti e imprese nell’accesso ai mercati dell’Ue. Secondo la direttiva, dunque, concessioni e servizi pubblici possono essere affidati a privati solo con gare pubbliche aperte a tutti gli operatori presenti in Europa. In questi anni, in Italia si è parlato di Bolkestein quasi sempre in relazione alle concessioni agli ambulanti e, appunto, ai balneari. In nome del “diritto di insistenza”, nel nostro Paese è stata ardua battaglia per fare in modo che la direttiva non venisse applicata con prevedibili reazioni da parte dell’Ue. A gennaio 2009 e maggio 2010 sono arrivate lettere in mora da parte della Commissione Ue. La prima per evidenziare come il “principio di insistenza” e il rinnovo automatico delle concessioni fossero incompatibili con la Bolkestein e con i principi comunitari; la seconda in risposta al tentativo dell’Italia di spiegare le proprie inosservanze.
Nel 2010 il Parlamento proroga le concessioni degli stabilimenti fino al 2015, impegnandosi a varare nel frattempo una riforma in grado di conciliare le norme europee sulla concorrenza con la tutela degli investimenti realizzati dai concessionari. Già nel 2012, però, arriva una seconda proroga, stavolta fino al 31 dicembre 2020. La motivazione è quella di sempre: permettere ai gestori degli stabilimenti di continuare a lavorare fino all’arrivo della riforma. Nel 2016 interviene la Corte di giustizia europea, che condanna le proroghe indiscriminate in quanto contrarie alla direttiva Bolkestein. Nemmeno questa sentenza, però, convince il Parlamento a occuparsi della riforma. Anzi: con la manovra del 2019 l’Italia estende ancora la proroga delle concessioni, e non più di cinque, ma fino al primo gennaio 2034.Nel novembre 2021 arriva un’altra sentenza: il Consiglio di Stato italiano cancella le proroghe e dichiara direttamente applicabile la direttiva Bolkestein. Per evitare che le concessioni saltino immediatamente creando il caos, la loro scadenza viene fissata – stavolta in via definitiva – al 31 dicembre 2023. Significa che l’intervento non è più procrastinabile e per questo il governo si è messo al lavoro.
A questo punto, la grande bagarre principalmente sugli “indennizzi” per gli investimenti fatti dal concessionario che risulta meno competitivo e perde la gara. Basterebbe applicare la normativa sull’”avviamento commerciale” varata in Italia all’inizio degli Sessanta ad aggiornata diverse volte. Non si capisce perché per gli investimenti fatti e le migliorie apportate alle spiagge, i gestori delle concessioni debbano avere un trattamento differente da quello che da sessanta anni dà buona prova per bar, ristoranti, negozi di ogni tipo. La norma è pronta: basta applicarla. E non se ne parli più.
Anche la riforma dell’ordinamento giudiziario e del Csm (meno folcloristica e meno variopinta di quella relativa alle concessioni balneari) ha subito un rallentamento. La maggioranza ha trovato un accordo per portare il testo in Aula al Senato (il testo è stato approvato dalla Camera a fine aprile) il 14 giugno, vale a dire due giorni dopo la celebrazione dei referendum, come ha imposto la Lega. L’intesa è stata raggiunta a un vertice in Senato, giovedì 19 maggio, a cui erano presenti i ministri della Giustizia Marta Cartabia e quello dei rapporti con il Parlamento Federico D’Incà. Rappresenta quello che potrebbe essere chiamato “il minimo sindacale” ma blocca le cosiddette ”porte girevoli” ed è un tentativo per ridurre il ruolo delle correnti nelle elezioni del Csm. Ricordiamo che l’Italia è cresciuta davvero in due momenti: l’età giolittiana e gli anni del miracolo economico. In quelle due fase, la giustizia era semplice e i cittadini aveva fiducia nella magistratura. Ora le pandette sono complicatissime e la magistratura è forse l’istituzione meno considerata da cittadini ed imprese. Anche perché travolta da scandali e particolarismi. È solo un primo passo.
La riforma a rischio per contrasti interni alla maggioranza è la delega fiscale. È scomparso il sistema duale (con tassazione proporzionale sui redditi da capitale e progressiva su quelli da lavoro), cardine del testo originario della delega. Tutta l’attenzione è sul catasto, di cui abbiamo parlato più volte. Secondo il compresso raggiunto, la nuova fotografia catastale (per il 2026) sarà scattata a norme vigenti, senza più attualizzare le rendite ai valori di mercato ma accedendo alla banca dati Omi (le quotazioni dell’Osservatorio del mercato immobiliare), e destinando alla riduzione dell’Imu le nuove entrate generate dall’emersione di case “fantasma”. Sembra un po’ una presa in giro mirata a potersi vantare nella campagna elettorale per il 2023 di avere bloccato tentativi di aumenti delle imposte sulla casa. Se nel 2026, oltre alla emersione di “casa fantasma”, risulteranno molte abitazioni accatastate con valori palesemente lontani dalla realtà, sarà il Governo dell’epoca ad avere la patata bollente in mano. Più semplice un riadeguamento graduale e progressivo sin dal prossimo futuro.