Dopo settimane di perdite, i listini americani sembravano aver contratto una febbre ribassista che contagiava gli altri principali mercati soprattutto quelli europei. E invece no. E ora? L’analisi di Giuseppe Pennisi
Dopo sette settimane di perdite, il mercato azionario americano sembrava avesse preso una febbre ribassista che contagiava gli altri principali mercati soprattutto quelli europei. Ma nei giorni scorsi, i corsi delle azioni sembrano aver girato un angolo. I principali indici hanno chiuso in forte rialzo venerdì. Alla chiusura di oggi (fine mese, quindi data su cui sono puntati gli occhi degli osservatori), le perdite dell’S&P 500 a maggio potrebbero essere state completamente spazzate via. Cosa c’è dietro il cambiamento di sentiment degli operatori e che influenza avrà sulle altre piazze? Si tratta dolo di un rimbalzo di breve durata o dell’inizio di una svolta?
Per gran parte dell’anno l’aumento dei rendimenti obbligazionari è stato la determinante principale del crollo dei prezzi delle azioni. Gli investitori temevano che tassi di interesse più elevati avrebbero ridotto i profitti, in particolare quelli delle aziende tecnologiche con valutazioni azionarie elevate.
Anche quando i rendimenti sono scesi, le preoccupazioni per la guerra in Ucraina, l’inflazione e la salute dell’economia globale hanno continuato a pesare sul mercato azionario. Forse queste preoccupazioni sono state in gran parte quietate. E gli investitori potrebbero essere stati rassicurati dal fatto che oltre il 75% delle 488 società dell’S&P 500 che hanno riportato risultati del primo trimestre hanno superato le aspettative. Wall Street ha evitato per un pelo un mercato ribassista.
In effetti, per qualche settimana, si è temuto che l’andamento di Wall Street anticipasse (non seguisse) le prospettive di profitti aziendali, che sarebbe stati falciati dagli alti costi delle materia prime, dalla dislocazione delle catene consuete di approvvigionamenti, da un mercato del lavoro in cui (con tasso di disoccupazione pari a circa il 3,5% della forza lavoro) i sindacati avrebbero potuto chiedere forti aumenti salariali.
Non solo nella attuale tornata di rinnovi dei contratti collettivi, i sindacati hanno mostrati moderazione (hanno una paura blu del replicarsi del replicarsi di una spirale inflazionistica sul tipo di quella degli anni settanta del secolo scorso). Soprattutto, è cominciata la consueta sessione annuale delle assemblea societarie per la chiusura dei bilanci ai fini degli adempimenti tributari. Ed in generale mostrano buoni utili.
Non solo in settori coinvolti nella pandemia (farmaceutico) e nella difesa dell’Ucraino contro l’aggressione Usa (il “complesso industrial militare” come lo definì Dwight David “Ike” Eisenhower nel suo discorso di commiato alla Casa Banca) ma anche altri (immobiliare, grande distribuzione non sono per via elettronica, pure certi segmenti del turismo).
In effetti, la pandemia avrebbe agito come una grande scopa od un enorme setaccio: ha spazzato via aziende inefficienti e portato le altre a potenziarsi ed arricchirsi. Su tutto questo c’è, poi, l’impressione di un numero crescente di economisti – si legga l’editoriale di Paul Krugman sul New York Times International di oggi 31 maggio – secondo cui l’inflazione avrebbe raggiunto il suo picco ed accompagnata da misure monetarie appropriate ed da un rafforzamento della concorrenza starebbe scendendo.
Sovente, la situazione Usa si riflette in Europa ed in Italia dopo qualche settimana. Dobbiamo, però, chiederci se in Italia la pandemia è stata un setaccio per distinguere aziende con potenziale da aziende decotte (o se si utilizzato accadimento terapeutico per sostenere queste ultime), se stiamo cogliendo i segni di rallentamento della vampata inflazionistica, se stiamo attivando la concorrenza nei settori «protetti» (Ad esempio, balneari, taxi).