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La riforma della sanità territoriale e le scadenze del Pnrr. Scrive Pennisi

Non c’è ancora un testo definitivo della proposta di riforma che dovrà essere vagliata dal Consiglio dei ministri e dal Parlamento, ma esiste uno schema avanzato già studiato dal Consiglio di Stato e discusso con le maggiori categorie della professione. L’analisi di Giuseppe Pennisi

Nelle polemiche su balneari, magistrati, catasto e taxi, pare dimenticato, quanto meno sulla stampa cartacea, che il 30 giugno c’è una scadenza per il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) che tocca la vita di un numero molto maggiore di italiani di coloro che gestiscono le concessioni balneari, hanno a che fare con i tribunali o con il catasto, guidano taxi o simili. La scadenza riguarda la sanità sul territorio, le cui carenze, esplose con la pandemia, vengono toccate ogni giorno da anziani, donne e uomini e bambini. È un tema che riguarda un bene pubblico essenziale: la salute.

Non c’è ancora un testo definitivo della proposta di riforma che dovrà essere vagliata dal Consiglio dei ministri e dal Parlamento, ma esiste uno schema avanzato già studiato dal Consiglio di Stato e discusso con le maggiori categorie della professione. Un esame con le Regioni e le Province autonome avverrà a giorni. Per questa ragione, è utile parlarne ora sulla base del testo analizzato dal Consiglio di Stato: ossia lo schema del decreto del ministero della Salute relativo ai nuovi “Modelli e Standard per l’assistenza territoriale del SSN, ex art.1,c.169 della legge 311/2004 e del PNRRM6-C1”.

Il ministero della Salute ha consegnato ulteriori documenti quali il parere positivo del Ragioniere Generale dello Stato (in termini colloquiali “la bollinatura”), il decreto ministeriale di approvazione del regolamento. Un allegato riguarda la mancata intesa sul tema tra governo e Regioni e Province autonome. Come accennato, è da auspicarsi che si giunga a un accordo; altrimenti, il progetto di riforma resterà, forse per anni, nella palude della giustizia amministrativa e forse anche costituzionale. La posizione del ministero è che “il decreto rientra nell’ambito delle azioni di potenziamento dei Lea (livelli essenziali di assistenza) ex Dpcm 12/01/2017 ed è volto a riformare le reti di prossimità territoriale (strutture e telemedicina) ex Pnrr, ergo, al limite l’intesa con Regioni e Province autonome è auspicabile ma non necessaria. Lasciamo ad altri esaminare questo punto di lana caprina.

Dopo la riorganizzazione della rete ospedaliera (DM 2/04/2015, n°70) basata sulla “clinical governance”, questo progetto di riforma punta ad avvicinare le prestazioni sanitarie al paziente, in modo che il modello territoriale diventerebbe il primo e fondamentale luogo di cura. La sanità territoriale si articolerebbe in case di comunità, ospedali di comunità e in ulteriori strutture intermedie. È utile ricordare che, nella loro autonomia, le Regioni e le Province autonome hanno preso strade differenti nell’attuazione della riorganizzazione delle rete ospedaliere: alcune hanno puntato su ospedali pubblici, altre su ospedali privati “convenzionati” con l’ente regionale. Luci ed ombre dei due percorsi si sono visti chiaramente nella pandemia.

Il Consiglio di Stato precisa che lo schema di riforma “delinea un innovativo modello organizzativo dell’assistenza sanitaria territoriale, condivisibilmente imperniato su un archetipo antropocentrico, che prevede la rimodulazione dei servizi e delle prestazioni offerte affinché siano il più possibile prossimi all’utente raggiungendolo fino al suo domicilio, che diviene il primo e fondamentale luogo di cura”.

In breve, le strutture territoriali (case della comunità, ospedali di comunità, strutture intermedie) consentirebbero un miglior servizio all’utente/paziente, una miglior integrazione socio-sanitaria, una alternativa all’ospedale e un Ssn di maggior qualità nelle cure. Ciò consentirebbe: erogazione uniforme dei Lea (Dpcm 12/01/2017); omogeneo sviluppo territoriale anche nelle Regioni meno-virtuose, maggior attenzione ai cronici/fragili/disabili.

Il testo di riforma, che si muove in linea anche con le indicazioni del documento “Realising the Full Potential of Primacy Health Care” dell’Ocse del 2019, si prefigge dunque i seguenti obiettivi, di grande rilievo:

  • definire un nuovo modello organizzativo per la rete di assistenza primaria, atta all’individuazione di standard strutturali, tecnologici e organizzativi uniformi su tutto il territorio nazionale;
  • introdurre un sistema di governance territoriale idoneo non solo a consentire la gestione dei bisogni socio-assistenziali, ma a facilitare i processi di individuazione delle priorità di intervento in un’ottica di prossimità e di integrazione tra le reti assistenziali territoriali, ospedaliere e di specialità;
  • prestare particolare attenzione alla continuità delle cure a favore di individui in condizioni di cronicità/fragilità e disabilità che comportano il rischio di non autosufficienza anche attraverso l’integrazione tra il servizio sociale e quello sanitario;
  • disegnare un nuovo assetto istituzionale per la prevenzione;
  • attuare una nuova strategia che consenta al Paese di conseguire standard qualitativi di cura adeguati, in linea con i migliori Paesi europei.

Obiettivi ineccepibili e quindi condivisibili. Tuttavia, sappiamo che le strade dell’inferno sono lastricate di buone intenzioni. Al progetto di riforma mancano aspetti importanti (lo si mormora anche a Bruxelles, dove lo schema è stato visto, pur se informalmente):

  • Fare operare le nuove strutture (assumere personale medico, parademico e sociosanitario, disporre di strumenti e di farmaci) ha un costo di almeno 8 miliardi di euro l’anno. La bollinatura della Ragioneria Generale equivale ad impegno “politico-istituzionale” del ministero dell’Economia e delle Finanze a fornire per sempre i costi incrementali di parte corrente della riforma?
  • I costi incrementali potrebbero essere ridotti in misura significativa, se si stabilisse un differente rapporto di lavoro con i medici di famiglia altrimenti chiamati medici di base (da una convenzione “capitaria”, ossia agganciata al numero di pazienti iscritti ad loro studio ad un contratto parasubordinato con il Servizio Sanitario) ma sembra che il ministero abbia tentato senza esito.
  • Il monitoraggio della riforma è affidato all’Agenas (Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionale) ma non si indica come verrà effettuato.
  • I testi (che meritano una bella pulitura) pongono l’accento sugli aspetti organizzativi, ma il successo o meno di una riforma del genere dipende soprattutto da processi e procedure. Neanche sfiorati nel documento.
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