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La siccità non aspetta. E noi cosa aspettiamo? Scrive D’Angelis

Un problema che non può essere rinviato e scaricato sulle spalle delle prossime generazioni, impegni che non possono durare meno di un disegno sulla sabbia in riva al mare. C’è bisogno di ridurre le insopportabili condizioni di sottosviluppo infrastrutturale idrico soprattutto al Sud, risvegliarsi dal lungo sonno e recuperare dai cassetti dei ministeri piani e interventi

È vero che della siccità si lamentava anche Giobbe, il Patriarca di Ur dalla pazienza proverbiale che davanti ai suoi torrenti in secca rifletteva (Giobbe 6, 15-17) su come si “sono dileguati…svaniscono, e all’arsura scompaiono dai loro letti”. Ma è anche vero che lo scenario climatico ormai si fa sempre più estremo e proietta in futuro carenza o mancanza d’acqua in molti nostri territori.

Che non rischia più e solo il nostro arroventato Sud lo indica l’Sos dal padre dei nostri corsì d’acqua, il Po, l’Eridanós dei greci colonizzatori che tramandarono la sconfinata valle del grande fiume come la leggendaria terra degli Iperborei, teatro di una mitica proverbiale fatica di Ercole.

Il Patriarca dei nostri 7.496 corsi d’acqua, già alla sua sorgente di Crissolo, a 2020 metri, mostra gli effetti del clima. Un tempo era la polla con vista sullo spettacolo delle cime alpine glaciali, ghiacciate e innevate. Oggi lascia nel libro dei ricordi gli abbagli dei ghiacci perenni, lo scenario che un giorno di settembre del 218 a.C., su questo pianoro accolse Annibale con il suo temibile esercito di 30 mila uomini, 10 mila cavalli e 37 elefanti, reduce dall’impresa epocale del valico dei Pirenei e impegnato nell’inedito passaggio dalle Alpi per la conquista di Roma.

Parole e suggestioni di Tito Livio in Ab Urbe condita (XXI, 355,7-8) ricordano che “…l’esercito procedeva con fatica attraverso la neve e sul volto degli uomini regnavano la stanchezza e la disperazione”. I guerrieri africani e iberici sulle montagne di ghiaccio del Po scivolavano, gli elefanti e i cavalli si azzoppavano al punto che rimase in vita un solo pachiderma superstite, quello sul quale tempo dopo misero in salvo, ben legato, proprio Annibale mezzo annegato nel fango e nell’acqua della palude dell’Arno in piena dove perse un occhio per una infezione. Ma nell’altro rimase per sempre impressa la ricchezza d’acqua della Penisola.

Il Po oggi è irriconoscibile, stremato dalla scarsità di neve invernale e di piogge. Così come gli altri fiumi che riceve dalle vette del Piemonte fino al Delta sull’Adriatico. Sono nelle stesse condizioni i suoi 43 affluenti principali, 22 da sinistra e 21 da destra, e i 128 subaffluenti in sette regioni attraversate – Piemonte, Valle d’Aosta, Liguria, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Toscana – più la provincia autonoma di Trento, che bagnano 3.210 comuni di un bacino dove vivono 16 milioni di persone – il 27% degli italiani – e ci sono un terzo delle nostre industrie e della produzione agricola nazionale e oltre metà del nostro patrimonio zootecnico, che insieme fanno il 40% del Pil nazionale alimentato anche dalla sua idro-energia pulita. I suoi 652 km di percorso delineano il nostro bacino idrografico più esteso, un’area idrografica da 71.000 km2, oggi costellata dalle tristissime immagini delle minime portate della siccità.

Già nel settembre 2017 un evento indicatore degli effetti climatici sulle acque, portò i primi otto mesi di quell’anno ad essere tra i più asciutti dal 1800. Il Po più volte ha sofferto forti riduzioni di precipitazioni ma mai come questa che sta portando le aziende idriche alle prime sospensioni notturne in 125 Comuni piemontesi e lombardi, e gli agricoltori a fare i conti con enormi problemi di scarsa irrigazione e a perdite di energia rinnovabile.

Il fatto è che anche il Po, come tutti i nostri fiumi e torrenti, ha un carattere torrentizio e può scendere, come oggi, sotto il limite di guardia di 270 metri cubi al secondo, zona idrologica dell’allarme siccità e molto lontana dalla sua media portata di 1.540 m3/s per non dire della sua massima portata durante le sue devastanti alluvioni a 13.000 m3/s. L’assenza di acqua provoca non solo uno stupefacente aumento di aree fluviali sabbiose, ma lungo costa l’abbassamento del livello delle falde sotto il livello del mare che favorisce l’ingresso di acqua salata che percola nell’entroterra e filtra contaminando gli acquiferi dolci.

Il letto del gran fiume spaventosamente a corto di acqua sta facendo emergere fanghi e detriti e riemergere anche reperti bellici della grande guerra dallo scorso inverno 2021-22 quando il Po segnalava portare da roventi Ferragosto lungo i Murazzi di Torino e delle altre città attraversate, con tanti altri isolotti in secca riemersi anche dalla Dora e dagli altri affluenti.

L’assenza di neve invernale e le piogge copiose che mancano ormai dall’8 dicembre scorso, provocano impressionanti scarti di portata rispetto alla media storica degli ultimi 65 anni, e la portata media nell’attraversamento di Torino è di appena 30 m3/s, ad Alessandria è di 152 m3/s quando nell’agosto 2021 erano 335.

Il Po segnala problemi che ci mettono di fronte a responsabilità nuove e immediate. Gli stessi che segnalano da tempo anche gli acquiferi del Centro e del Sud che lasciano ettari di terreni in desertificazione – fenomeno da non confondere con la desertizzazione che richiama l’espansione dei deserti – per impossibilità di irrigazione lungo le nostre fasce costiere. Siamo il Paese front line della crisi climatica nel Mediterraneo, e subiamo perdite costanti di terreni agricoli già in atto su circa 20.000 km2 con consistenti riduzioni di produttività agricola, perdita di biodiversità di ecosistemi naturali e aumento dei fattori di disturbo biotici come attacchi batterici e parassitari, e abiotici con incendi sempre più difficili da contrastare.

Sono problemi sollevati da tempo ma da tempo fuori dai radar della politica. Eppure l’Associazione Nazionale dei Consorzi di bonifica, le associazioni dei coltivatori e le Autorità di bacino su dati Cnr e Ispra, proiettano gli stessi rischi sul 70% dei suoli agricoli disponibili della Sicilia, sul 58% del Molise e della Puglia e della Basilicata, fra il 30% e il 50% di Sardegna, Marche, Emilia Romagna, Toscana, Umbria, Abruzzo e Campania, e quote minori nelle altre regioni. Da allarme rosso sono già da anni le condizioni delle campaggne di Agrigento, Siracusa, Reggio Calabria, Potenza, Bari, Foggia, Sassari e altre con alle spalle molte annate calde e siccitose, e il solo 2021 ha visto 140 giorni consecutivi senza pioggia nella piana di Catania e l’11 agosto 2021 il siracusano raggiunse la punta mai toccata di 48,8°C..

Ma è l’intera Italia che vede ormai aumentare i periodi di siccità passati in media da 40 a oltre 150 giorni l’anno e il clima sta impattando sul nostro più importante patrimonio idrologico europeo. Il nostro paradosso è proprio questo: siamo un Paese da record di disponibilità di acque ma subiamo crisi idriche con incredibile facilità. Abbiamo in dotazione una media di 302 miliardi di metri cubi di pioggia all’anno, superiore a quella dell’Inghilterra o Germania o Francia. Abbiamo 1.053 grandi falde montane dolci, 7494 corsi d’acqua con 1.242 fiumi, 347 laghi, 19.500 piccoli medi invasi, 526 grandi dighe. Siamo un Paese potenzialmente ricco d’acqua ma in realtà siamo quel Paese bizzarro e unico che aggiunge alle crisi climatiche con meno neve e pioggia le crisi di infrastrutture idriche.

Oggi noi preleviamo per tutti gli usi l’11,3% all’anno in media di acqua stoccata superficiale o sotterranea dal totale delle piogge, all’incirca 34,2 miliardi di metri cubi. È una quantità più bassa rispetto al 13,2% prelevato nel 1971. E già questo indica un problema enorme. Di questi prelievi però ne utilizziamo solo 26,6 miliardi (51% agricoltura, 21% industria, 20% civile, 5% energia, 3% zootecnia) e ciò indica un secondo enorme problema con sprechi per strada per 7,6 miliardi di metri cubi di acqua, più o meno il 20% per reti vetuste e inefficienze.

Serve oggi un deciso salto di qualità nella programmazione pubblica con nuovi schemi idrici e connessioni e interconnessioni tra invasi e acquedotti. Serve il riuso dell’acqua di qualità rilasciata dai depuratori per ridurre i prelievi no limits per usi industriali per raffreddare impianti o per il lavaggio automezzi e piazzali, e per il lavaggio strade. Tra l’altro è alle porte l’ennesima condanna della Corte di giustizia europea per il nostro mancato riutilizzo dell’acqua da depurazione.

Dobbiamo recuperare almeno quel 3% di stoccaggio di acqua di pioggia perso negli ultimi 50 anni per carenza di infrastrutture di trasporto e invecchiamento e interrimento di dighe e invasi privi di manutenzione. Bisogna migliorare la resilienza dei nostri sistemi idrici, completare le opere avviate mezzo secolo fa e ancora incompiute.

La sicurezza idrica è un tema industriale di prima grandezza per gestire le variazioni climatiche di lungo periodo. Le proiezioni climatiche dimostrano che la quantità totale d’acqua non dovrebbe cambiare su base nazionale, ma di sicuro avremo forti differenze tra territori. Ciò significa uscire dall’indifferenza verso il problema acqua con un salto di qualità nella programmazione pubblica e negli investimenti. Servirebbero il prima possibile almeno altri 2000 nuovi piccoli e medi invasi per immagazzinare quanta più acqua di pioggia e fluviale possibile e portarla al più presto là dove serve.

C’è bisogno di ridurre le insopportabili condizioni di sottosviluppo infrastrutturale idrico soprattutto al Sud, risvegliarsi dal lungo sonno e recuperare dai cassetti dei Ministeri piani e interventi, talvolta anche già finanziati ma dimenticati o dispersi nei meandri burocratici. La loro urgenza è massima. Purtroppo anche nei clamorosi fondi del Pnrr l’acqua fa la Cenerentola, messa all’angolo e molto sottostimata (un solo 2% sul totale) quando oggi lo Stato dovrebbe costruire, riparare, rigenerare, irrobustire, estendere e tecnologizzare non solo le reti ferroviarie, stradali, digitali, energetiche ma la rete delle reti, quelle dell’acqua, che garantisce la circolazione di tutto per la sua indispensabilità e utilità per l’interesse pubblico soprattutto in periodi di siccità come questo. Un problema che non può essere rinviato e scaricato sulle spalle delle prossime generazioni, impegni che non possono durare meno di un disegno sulla sabbia in riva al mare.

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