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La fine dei partiti nati dal basso. Carone legge l’addio di Di Maio

Il vero sottotesto di questa vicenda rimane un messaggio chiave a tutto il mondo politico, in questo caso anche fuori dall’Italia: l’uno non vale l’altro. E infatti il discorso di Di Maio sancisce la fine di un’era in cui l’attenzione andava alle esperienze dei partiti nati dal basso, in cui il mandato veniva concepito con un potenziale disvalore, con chiavi populiste e anti-estabilishment. L’analisi di Martina Carone, YouTrend e Università di Padova

Chi diceva che non sarebbe successo niente, da martedì 21 giugno ha qualche elemento per rivedere le proprie opinioni. Dopo settimane di maretta interna (manco troppo), Luigi Di Maio ha sancito la fine della sua appartenenza al M5S, diventando l’ennesimo grande fondatore ad allontanarsi dai destini del Movimento dopo Grillo, Di Battista e i meno noti – ma pur sempre rilevanti – Giarrusso, Paragone, De Falco, Morra & co. Evidentemente questa scissione (che vede coinvolti oltre 60 tra deputati e senatori) ha diverse conseguenze.

Di Maio, per inciso, le ha elencate tutte nel suo discorso. Quasi 20 minuti in cui il ministro degli Esteri ha sparato a zero sul rivale (Conte) in una conferenza stampa dall’Hotel Bernini, location altamente simbolica per gli sgambetti (era infatti il posto dove alloggiava Renzi al tempo del “Enrico, stai sereno”). Il ministro compie un’ampia digressione partendo dalla soddisfazione delle decisioni governative delle ore precedenti e arrivando ad alcune delle frasi che han fatto agitare i taccuini dei presenti: dietro alle ormai già celebri “il M5S da ora non è più il primo partito in Parlamento” e “uno non vale l’altro” si nascono infatti due letture strategiche della mossa di Di Maio. Innanzitutto, una chiave legata al tema stabilità e riforme.

Dire che il M5S non è più il primo partito in Parlamento equivale a dire “Conte hai perso il fiammifero”: il capo politico pentastellato aveva infatti usato la velata minaccia del ribaltone per affermare la propria leadership e per mantenere il Movimento unito (si fa per dire) su alcune battaglie simbolo, come il reddito di cittadinanza, l’invio delle armi e il no al nucleare. Già allora il tutto sembrava più un “abbaiare senza mordere” (e del resto le minacce hanno senso solo se poi si passa dalle parole ai fatti, e di fatti non se ne sono visti).

Ora, però, il governo rischia ancora meno: Conte aveva i numeri per rendere la sua navigazione più instabile, eppure – con la costituzione del nuovo gruppo dimaiano – Draghi ha più stabilità per portare la legislatura a termine potendo fare le riforme previste dal Pnrr. Rimane, inoltre, un tema centrale che è quello della fiducia nel “sistema Italia”: Di Maio compie un atto importante nel momento in cui c’è un’operazione rilancio a livello internazionale del profilo di stabilità e responsabilità del nostro Pese, staccandosi da quello che era un partito al cui interno convivevano istanze ambientaliste (che per anni – a torto o a ragione – hanno bloccato o tentato di bloccare alcune opere chiave nel panorama energetico, si pensi al Tap), no-vax (che poche volte sono state taciute e spesso invece accarezzate), filorusse e anti-atlantiste (e il caso Petrocelli ne è un esempio lampante), e tutto questo poteva minare il posizionamento altamente istituzionale, globalista e legato ai mondi degli investitori internazionali su cui il ministro degli Esteri sta puntando da tempo.

Ma il vero sottotesto di questa vicenda rimane invece un messaggio chiave a tutto il mondo politico, in questo caso anche fuori dall’Italia: l’uno non vale l’altro. E infatti il discorso di Di Maio sancisce la fine di un’era in cui l’attenzione andava alle esperienze dei partiti nati dal basso, partecipati attivamente da sostenitori e attivisti, in cui veniva profetizzata una assenza di verticalità e in cui il mandato – inteso come incarico politico – veniva sempre concepito come un elemento che rischia di peggiorare la moralità di chi lo ricopre. Il tutto condito da chiavi populiste e anti-estabilishment (che ovviamente faticano a restare a galla quando invece nel palazzo ci si mette piede) e da sperimentazioni di meccanismi di partecipazione digitale e trasversale.

Ecco, il vero messaggio del discorso di Di Maio non è rivolto solo a Conte, e non è rivolto solo agli investitori: è rivolto a tutte le forze politiche legate in qualche modo a questa esperienza. Chi nasce incendiario muore pompiere, ma – se resta con un piede di qua e un piede di là – rischia di restare con un cerino in mano che può dare fuoco a tutto. E, soprattutto, di aver fatto già incazzare i pompieri.

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