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Siamo sicuri che il 2% di inflazione sia ancora un obiettivo corretto?

Da circa trent’anni, le autorità monetarie americane ed europee hanno adottato un tasso di aumento dell’indice dei prezzi al consumo del 2% l’anno come target. Ora è probabilmente il caso di riesaminare la materia. Ecco perché secondo Giuseppe Pennisi

Ieri, 26 luglio, il Fondo monetario internazionale ha tagliato le sue previsioni di crescita globale per il 2022 al 3,2%, in calo dello 0,4% rispetto alla stima di aprile e quasi la metà del tasso di crescita dello scorso anno.

Grazie in gran parte all’inflazione, il Fmi prevede solo una crescita mondiale del 2,9% nel 2023, con il potenziale di scendere al 2% se i blocchi del Covid-19 sopprimono l’economia cinese o la frammentazione politica ostacola il commercio globale. Il Fmi vede anche il rischio di una recessione globale verso il 2024. Per l’Italia, i numeri Fmi, elaborati prima della caduta del governo Draghi, dello scioglimento delle Camere e dell’annuncio di elezioni tra due mesi, stimano che nel 2024 si tornerà a tassi di crescita economica rasoterra. Più negative le previsioni d Moody’s e Standard & Poor’s: le note agli abbonati parlano di un arresto del processo di riforme in Italia; quindi un ritorno a tassi di crescita zero virgola con un peso sempre più forte del debito della Pubblica amministrazione.

È quasi certo che la Federal Reserve annuncerà un altro pesante aumento dei tassi di interesse mercoledì ossia oggi (il comunicato arriverà in Italia nel tardo pomeriggio) per frenare l’inflazione negli Usa. I mercati hanno previsto un aumento di 0,75 punti per il secondo mese consecutivo, che segnerebbe la più forte stretta monetaria americana dai primi anni 1980. E questa non sarà l’ultima mossa della Fed: la maggior parte degli investitori si aspetta che alzi i tassi a breve termine di un altro punto percentuale prima della fine dell’anno. Ciò porterebbe i tassi di interesse a più del 3%, rispetto allo 0% all’inizio di marzo.

La fretta della Fed di alzare i tassi potrebbe funzionare. Le aspettative di inflazione, misurate dai sondaggi dei consumatori e dai prezzi delle obbligazioni, si sono leggermente attenuate. Ma anche i tassi più alti stanno iniziando a colpire l’economia. La costruzione di nuove case ha subito un brusco rallentamento, mentre le domande di assicurazione contro la disoccupazione sono aumentate. Domare l’inflazione senza minare la crescita è un compito arduo.

È in questo quadro che si sta riaprendo nel mondo professionale ed accademico un dibattito sull’inflation targeting, ossia porsi per le banche centrali come obiettivo quantitativo un tasso di inflazione considerato compatibile con una crescita economica adeguata. Da circa trent’anni, le autorità monetarie americane ed europee (e quelle di numerose altre banche centrali) hanno adottato un tasso di aumento dell’indice dei prezzi al consumo del 2% l’anno come target, obiettivo da raggiungere e verso il quale orientare gli strumenti di cui dispone la politica monetaria.

Si è diffusa l’idea che il “magico” 2% sia il frutto di complessi studi econometrici di consorzi di prestigiose università. Nulla di più errato. Nel dicembre 1989, proprio mentre si avvicinavano le vacanze di fine anno e la politica aveva fretta di andare in ferie, in Nuova Zelanda si davano gli ultimi ritocchi alla normativa con cui si dava alla Banca centrale l’indipendenza dalle autorità di Governo. Si pensò che sarebbe stata una buona idea se la Banca avesse un target da rispettare e sulla cui base essere giudicata. Durante una veloce colazione alla buvette del Parlamento (le vacanze di Natale e fine anno incombevano) un ex ministro delle Finanze suggerì l’1%. Ne seguì un breve dibattito con la conclusione di porlo tra lo 0 ed il 2%. Successivamente, dato che per la crescita ci vuole un po’ d’inflazione, si stabilì il 2%. Altre banche centrali trovarono quella neo-zelandese una buona idea. Ed il 2% si diffuse.

Ora sulla base di oltre trent’anni di esperienza è probabilmente il caso di riesaminare la materia. L’inflazione causa costi elevati alla società. Ma la deflazione pure, specialmente se porta a una recessione mondiale come avvenne negli anni Ottanta del secolo scorso e come il Fmi teme che possa succedere adesso. Il costo di portare l’inflation target al 3% o al 4% non è elevato ma i benefici possono essere grandi. Si evitano tassi d’inflazione zero, che distorcono le scelte degli agenti economici e sono più semplici rientri “morbidi”.

La Banca d’Italia dovrebbe farci un pensierino e porre il problema in sede Bce.

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