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Una bussola per il labirinto europeo

Anteprima del numero di luglio
 
Nel suo recente Reazione chimica, Stefano Righi ripercorrendo la storia della Montedison degli anni Ottanta giunge alla sconsolata conclusione che lo sviluppo delle filiere verdi, agrochimiche e di specialità è avvenuto “per dispersione”, a seguito della frantumazione dell’ex colosso privato (all’avanguardia mondiale in certi segmenti, come i polimeri e gli impianti), finito nel tritacarne di una violenta lotta tra frazioni del capitale scatenata per ragioni eminentemente finanziarie. Al termine delle quali, come è noto, vi fu l’impoverimento produttivo e occupazionale del settore, che solo dopo un lento metabolismo degli spezzoni innovativi messi in circolo dalla crisi dei big ha visto emergere medi gruppi in grado di reggere la concorrenza di nicchia. Simili percorsi auto-distruttivi si sono realizzati nell’informatica e in parte nelle telecomunicazioni, ed è solo quando i soggetti sopravvissuti sono entrati in correlazione con le infrastrutture economiche europee, all’inizio di questo millennio, che sono emerse prospettive in grado di dare nuovo slancio al sistema-Paese. Un passaggio fondamentale è stato il varo della Strategia di Lisbona (2000-2010), che nonostante il parziale fallimento, ha avuto il merito di diffondere la percezione di istituzioni europee interessate allo sviluppo economico e non solo alla tenuta finanziaria e contabile degli Stati membri.
 
Oggi ci troviamo su un crinale non meno importante, in cui l’assenza di una chiara consapevolezza dell’interesse nazionale può essere foriera di nuovi, gravi disastri – e questa volta senza margini di recupero (a meno di immaginare un impossibile, e in realtà nemmeno auspicabile, esito “turco”, con l’Italia debolmente ancorata al progetto europeo e a mani libere sui mercati internazionali).
La definizione dell’interesse nazionale è dunque prioritaria, e diventa tanto più urgente quanto più la politica europea assume contorni definiti e cogenti. Il 2013, da questo punto di vista, sarà uno spartiacque. Nel calendario europeo si tratta di un anno chiave, perché il 1° gennaio 2014 inizierà non solo un nuovo round di fondi strutturali, ma anche il nuovo programma quadro per la ricerca e l’innovazione, denominato Horizon 2020. Il valore dei due programmi settennali non è solo nella cospicua dotazione finanziaria, ma anche nel loro essere strettamente sinergici con le priorità della strategia Europa 2020. In generale, a Bruxelles la crescente percezione “sviluppista” – ovvero che non nel rigore contabile, ma nello sviluppo sociale ed economico si esprimano gli interessi di una comunità – si fonde con una maggiore attenzione alle differenze regionali come motore della crescita e dell’innovazione.
 
Si tratta di evoluzioni su cui l’Italia può dire la sua, a patto che riconosca nel proprio ricchissimo pluralismo territoriale e industriale un elemento di forza, quale in effetti è, e non un elemento di divisione e inutile frammentazione come è stato troppo spesso in passato. Si pensi alle diverse anime in lotta nel nord plurale, tra cooperativismo cispadano, liberalismo piemontese, solidarismo veneto e lombardismo, per decenni ingessate nel gioco partitico e delle correnti, in un risiko che si è trascinato fino alla svolta degli anni Novanta, quando la Lega nord ha fatto del “capitalismo molecolare” della pedemontana lombarda la cifra della rappresentanza del settentrione. Senza però riuscire, in definitiva, a intercettare la crisi profonda del riformismo emiliano, o a produrre una visione condivisa, al di là della facciata mediatica, con il mondo produttivo veneto.
 
Ora la disgregazione di questi contenitori precipita nel crogiuolo padano la trasformazione del capitale sociale secondo modalità reticolari, con al centro quelle che Aldo Bonomi, finissimo osservatore di questa realtà, definisce “lobal cities”, centri medi (da Parma a Bologna, da Verona a Padova) che intrecciano professionalità creative urbane con la cultura manifatturiera del contado, all’interno di una “città continua” in cui imprese, università, società civile parlano da sempre, con poche sfumature, lo stesso linguaggio. Il superamento delle micro-faglie ideologiche e territoriali incistate dal leghismo, ma presenti da tempo sotto altre forme, è un compito che spetta a forze politiche di respiro nazionale in grado di collegarsi e trarre linfa vitale dai territori. Non è una questione accademica, ma una sfida molto concreta di cambiamento della cultura politica, che andrà affrontata costruendo l’interesse nazionale in coerenza con gli obiettivi strategici europei – a partire dall’innovazione, dove l’Italia accusa un consolidato ritardo e dove sta il focus dell’agenda al 2020.
 
Si tratterà in pratica di far sedere attorno a un tavolo gli stakeholder del cambiamento “dal basso”, mapparne le competenze sulla carta geografica e settoriale, creare partenariati locali orientati all’innovazione e promuovere la partecipazione ai programmi gestiti da Bruxelles. Uno di questi tavoli privilegiati è il Pore, il Progetto opportunità delle regioni in Europa, struttura di missione del Dipartimento per gli affari regionali presso la presidenza del Consiglio, luogo istituzionalmente deputato alla formazione di una posizione italiana comune nei prossimi negoziati per i fondi tematici europei. Esso si presenta come il perno nazionale di un’architettura poliarchica che va strutturandosi tra territori e Bruxelles, che ha alcuni meccanismi fondamentali di relazione con la Commissione (le consultazioni aperte, le call) e una rete di supporto che coinvolge esperti nazionali distaccati, comitato delle regioni, comitato economico e sociale, Parlamento di Strasburgo.
 
Si può valutare che questa dinamica (verticale ma non verticistica, e in potenziale, feconda concorrenza con quella intergovernativa) forgerà il quadro programmatico dei distretti industriali investiti dalla crisi globale, spingendo gli attori politici a individuare punti di forza e abilità di nicchia, ma anche visioni comuni che facciano della “biodiversità” socio-economica dei nostri territori una leva competitiva. L’esatto contrario di quanto vicende – recenti e meno recenti – della lotta di potere in Italia ci hanno consegnato.


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