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Il presepe d’estate, nessuna novena solo un barbarico yawp!

Sono le 9 del mattino e se non sono le campane, a dare la sveglia sono le grida finalizzate di un aggregato vocalconsonantico “Aviemuupiscizzurrobonuuuuuu! Upiscispadaaaa!”. Il barbarico yawp.
L’orizzonte, a quell’ora, l’ora in cui Sole sta arrampicando la schiena di Aspromonte, è unione pastello dell’azzurro del cielo con l’azzurro del mare. L’interferenza delle tonalità è mitigata dal velo di scirocco che, nella chimica del riverbero in cui si confondono di Talete gli elementi, fa le sfumature un ambiguo grigio.
Il fuoco degli occhi si abbassa sui dettagli della vita che riprende con la fatica di chi deve affrontare una nuova giornata sotto la pioggia dei raggi dei primi giorni d’Agosto. Si scorgono i resti della notte precedente che attendono di essere raccolti dalle procedure della società civile. Non c’è il tempo di portare via gli scarti del giorno prima che le strade e le vie sono lì a raccogliere nuovi umori e nuovi resti, quelli del giorno che si apparecchia. La ventresca di un giovane pesce spada.
Da un banco, lì a pochi passi, quello di Totò, esso per quanto è lungo, sporge dalle estremità del tavolaccio, ed è fatto in due, decapitato. A pezzi sotto gli occhi di automobilisti, scooteristi, ciclisti e pedoni. Grandi e piccoli. Il sangue è talmente rosso da esser blu. Segno del lignaggio del principe del mare.Con tanto di spada per giunta. A riprova della sua appartenenza a chissà quale ordine cavalleresco, sotto la corona di Nettuno, Re e Dio.
Il sangue scorre sul tavolaccio e percola sull’asfalto, quello della salita della Matrice, colei che vigila con la cura della Madre e benedice le gesta umili e carnali della vita del borgo. Dove la pietra è fatta sacra dal sangue e dal sudore delle creature che si muovono come un crepitare di scintille sul fuoco.
Poco più distante, u Gnesu sistema le cassette della frutta. La sua apparenza rende sorprendente la buona educazione di parole e modi con cui accoglie.
Svoltato l’angolo, ecco il carretto fisso e mobile, con due ruote di bicicletta a render agili gli ambulanti spostamenti, alla cui guida sta una signora dalla faccia che pare di cartone. Sul volto marrone, le rughe sono così tante e profonde che pare una maschera. Tra i solchi del tempo, manco fosse una zolla tettonica, la bocca che è fessura più fessura tra le fessure fa partire urla incomprensibili. Quelle che annunziano il pescato in bella vista. Dalle assi di legno cola sangue che è altro sangue, misto ad altri umori di altri pesci su cui ghiaccio nuovo è depositato per mantenerne la conservazione. In una lingua ignota, nel volgere di pochi minuti, si consumano le trattative: ora sono di acquisto di un’argentatissima spatola, pesce sottovalutato, ora di un nulla di fatto con reciproci gestacci di non intesa tra l’ambulante e il cliente non convinto del prezzo.
Il bar dalla peggiore insegna, dai caratteri pre-arial e dai colori sbiancati dal sole e dal tempo, serve il miglior caffè. Dentro, un condizionatore manda aria freddissima che un ventilatore spinge in ogni direzione gelando il bordo delle orecchie degli avventori. Ci sono alcuni dipendenti del Comune dalla professionalità riconoscibile per via del forbito uso della lingua e dalla solerzia con cui girano il cucchiaino nella tazzina. Nessun granello di zucchero può dirsi non completamente disciolto in quel caffè, rigorosamente di produzione locale, l’unico che non eccita né fa svegliare.
Le 12 in punto. Dalla zona alta del paese suona la Sirena, quella che un tempo avvisava gli equipaggi delle feluche che il giorno si era fatto per metà. Una delle piazze del borgo, un muro ospita le affissioni. Accanto ad alcuni manifesti mortuari dove il nome del defunto è accompagnato in “italic” dalla ngiuria con cui era conosciuto ai più, su di un’affissione a fianco si legge un aforisma che racchiude il logos loci: “U sceccu nunnè sceccu picchì è sceccu, ma picchì nun sapi ch’è sceccu”.

Poco più in là verso la fine del Corso, dopo aver schivato una secchiata d’acqua proveniente da un balcone, ecco la vetrina di un pompe funebri. Sulla parete, alle spalle della scrivania amministrativa, sta incollato un prototipo di manifesto con tanto di esempio di carattere, forma e dicitura. L’esempio è intestato all’improbabile defunto: “Poi Passu”.
Una smorfia ci piega la guancia, pensando all’ironia che vuole esorcizzare l’evento che non fa ridere. Ché la morte accompagna la vita delle genti che vivono questi luoghi tutto l’anno e per le quali quel manifesto non è di esempio ma di monito.
D’un tratto, l’attenzione è catturata da un signore dall’enorme stazza. Indossa un completo scuro assai consunto. La maglietta riporta una scritta che non si legge per intero. La “O” al centro della parola è divaricata dall’epidermide del geoide che sotto spinge come un otre pieno di vino appena versato. Da due ciabattazze compaiono due  enormi piedi che ricordano Polifemo. Le dita sporgono sul davanti tanto che ad ogni passo toccano terra. In mano una chiave a pappagallo è l’unico arnese con cui svolge la sua opera svogliata. E’ all’interno di un balcone a piano terra, la cui estensione è troppo piccola per una proprietà privata ma troppo grande per lo spazio sottratto alla pubblica strada dove, per svoltare, le automobili debbono fare esercizio di manovra. Il gigantesco essere sudato, dai capelli brizzolati e lunghi sulle orecchie, sta cercando di sbloccare il rubinetto di un lavandino privo di manopola che normalmente perde. Goccia si somma a goccia durante le notti insonni scandendo il tempo che pare non passare. E con l’afa, in quel fondo dove la goccia si deposita, le uova di zanzara si schiudono e al tormento sommano tormento. L’operazione del lavandino è epifania dell’apertura della casa per le pulizie, giusto una volta l’anno, che preludono all’arrivo di qualche turista. Sporadico per sporadiche settimane. Per Polifemo quella fonte di reddito, nel tempo sempre più limitata, è solo scocciatura. Quando, dopo l’ennesimo colpo di chiave sulla vite orfana della manopola, l’acqua inizia a fuoriuscire con un rumore che pare un pirito, egli rimane sospeso, immobile, con la testa china sul rubinetto a guardare l’acqua che scende tra un singhiozzo e uno spruzzo quasi che anche lei, acqua latitante, nonostante la pressione che la spinge a uscire da quel tubo, non avesse proprio intenzione di venire allo scoperto.



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