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Quel che resta di Al-Qaeda

Di Dario Cristiani

Un successo operativo, un incasso politico. La morte di Al-Zawahiri, protetto dai talebani, conferma la sconfitta strategica con il ritiro Usa dall’Afghanistan ma anche la straordinaria capacità operativa dell’intelligence americana. Ecco cosa (non) resterà di Al-Qaeda. L’analisi di Dario Cristiani, Iai/Gmf fellow

Nel pomeriggio del 1° agosto Joe Biden ha annunciato alla Casa Bianca di aver autorizzato un attacco di precisione che ha rimosso Ayman Al-Zawahiri, l’emiro di Al-Qaeda, “dal campo di battaglia una volta e per tutte.” Tale operazione è, a vari livelli, un indubbio successo. È un successo simbolico perché, nonostante la sua mancanza di carisma, le sue difficoltà logistiche, il suo ruolo sopravvalutato secondo alcuni analisti americani, Al-Zawahiri era pur sempre il leader formale di Al-Qaeda.

È un successo operativo: una tale operazione dimostra quanto gli americani mantengano – nonostante tutto – una capacità ineguagliata di portare a termine operazioni di tale complessità, basate su un’intelligence estremamente precisa e granulare e una straordinaria capacità di colpire i bersagli, anche in un luogo ostile come l’Afghanistan da cui gli Stati Uniti sono andati in via in modo caotico e disordinato solamente l’anno scorso.

Questa uccisione non segnerà la fine del terrorismo qaedista in giro per il mondo: il gruppo era, ed è, fortemente decentralizzato e gli affiliati in giro per il mondo non dipendono in alcun modo dalla leadership centrale. Ma, certamente, un’operazione del genere rappresenta un successo operativo perché chiude il cerchio rispetto agli attacchi dell’11 Settembre, fardello psicologico e politico che continua a pesare sulla società americana.

Nel solo 2022, questa è la terza operazione riuscita contro i leader jihadisti dopo che gli Stati Uniti hanno ucciso i due nuovi leader dello Stato Islamico, Abu Ibrahim Al-Hashemi al-Quraishi e Maher Al-Agal, rispettivamente a febbraio e luglio 2022. Queste operazioni sono un’ulteriore prova che gli Stati Uniti, nonostante tutti i problemi, mantengono una straordinaria capacità a livello di contro-terrorismo, che si declina su scala globale, dall’Afghanistan alla Siria. In un mondo in cui potenze emergenti e revansciste come la Russia e la Cina si mostrano sempre più assertive, tali operazioni servono a Washington anche a mandare un messaggio su quanto, tra difficoltà e problemi, certe capacità militari restano difficilmente raggiungibili per i propri avversari.

Questo, inoltre, è un successo politico anche interno per l’amministrazione Biden. Vendica ciò che gli americani ripetevano da tempo: e cioè che i Talebani erano venuti meno, da subito, a quanto previsto dagli accordi di Doha. Il fallimento degli accordi negoziati nel 2020 chiama in causa in maniera perentoria la precedente amministrazione di Donald Trump. Una delle condizioni esiziali di tali accordi era infatti la rinuncia, da parte di talebana, di tornare a ospitare i militanti qaedisti.

L’uccisione di Al-Zawahiri a Kabul è una plastica rappresentazione di questo passaggio. Al-Zawahiri è stato ucciso nella casa di proprietà di un collaboratore di Sirajuddin Haqqani, leader essenziale del movimento, ministro dell’Interno ad interim e vice comandante supremo dei talebani. Questo particolare conferma molte voci emerse nelle settimane precedenti l’attacco: Al Qaeda era tornata ad operare in Afghanistan con l’esplicito sostegno della leadership talebana e con una certa libertà di manovra. Queste voci hanno preso ulteriore slancio a metà luglio, dopo la pubblicazione di un report delle Nazioni Unite in cui si sottolineava il maggiore comfort e la capacità di comunicare registrata negli ultimi mesi per al-Zawahiri, coincisa con il ritorno dei Talebani in Afghanistan. Due mesi prima, sempre le Nazioni Unite sottolineavano come Al Qaeda avesse trovato “rifugio sicuro sotto i talebani”, godendo di “maggiore libertà d’azione” e con la rete Haqqani vista come spina dorsale dell’alleanza.

Da questo punto di vista, la preparazione minuziosa dell’attacco, le tempistiche, e la conoscenza precisa della presenza di Al-Zawahiri nell’area di Sherpur, zona d’elezione dove vivono i leader talebani e area estremamente protetta della capitale, suggerisce che ci sia una significativa probabilità che gruppi interni al movimento abbiano esposto il prestigioso ospite all’attenzione degli americani. Il fatto che questa operazione abbia necessitato di tanto tempo dimostra anche la scarsa capacità di contro-intelligence dei talebani.

In questo senso, tale operazione porterà probabilmente a una resa dei conti tra le varie fazioni talebane, sviluppo che verrà seguito con attenzione dal gruppo locale dello Stato Islamico interessato a sfruttare ogni minimo problema dei Talebani. Sempre che non sia stata proprio la leadership talebana a “svendere”, in maniera silente, Al-Zawahiri.

Ad esempio, esponendolo più del dovuto, consci delle attenzioni americane. Perché fare così, allora? Per dimostrare in qualche modo agli americani la volontà di supportare un nuovo inizio nelle relazioni. Giusto due giorni prima dell’attacco, una delegazione americana aveva incontrato, in Uzbekistan, una delegazione talebana per discutere il rilascio di 3,5 miliardi di dollari in fondi afghani detenuti presso la Federal Reserve. Tempistiche interessanti. Fantapolitica, probabilmente: almeno al momento, non ci sono elementi concreti che suggeriscano un tale scenario. Ma in queste situazioni mai dire mai. Le dinamiche dei prossimi mesi, forse, potranno dire qualcosa. Se le relazioni tra americani e talebani dovessero migliorare, forse questa spiegazione potrebbe prendere quota.

Tale successo arriva in momento in cui i sondaggi che misurano il tasso di consenso dell’operato di Biden sono ai minimi storici, simili a quelli di Trump Difficilmente l’operazione segnerà un’inversione di tendenza strutturale rispetto a questi dati. C’è però un passaggio da segnalare: l’uccisione di Al-Zawahiri e la dimostrazione che i Talebani non hanno rispettato sin da principio gli accordi di Doha rappresentano un elemento che dimostra quanto gli accordi di Doha negoziati dall’Amministrazione Trump fossero accordi pessimi e che i talebani non hanno mai preso sul serio.

Tali accordi hanno segnato l’azione dell’amministrazione Biden in Afghanistan sin dal principio: se Biden avesse detto “restiamo e rinegoziamo” sarebbe passato per il democratico globalista che non vuole riportare i soldati a casa. Accettandoli, invece, come ha fatto, ha dovuto sobbarcarsi la responsabilità politica di un ritiro caotico, con un governo afgano e relative forze di sicurezza in disfacimento sotto la pressione dei Talebani politicamente rafforzati dall’intesa. Insomma, Biden ha subito il contraccolpo del ritiro, in termini di immagine, consenso e forza politica, ma le radici di questo fallimento appartengono alle scelte scellerate dell’amministrazione Trump.

In questo senso, in un contesto “normale”, l’uccisione chirurgica di Al-Zawahiri insieme ai dettagli che stanno emergendo dai lavori della commissione 6 gennaio, dovrebbero rappresentare degli incentivi per molti elettori repubblicani, in particolare coloro preoccupati per la sicurezza e il ruolo americano nel mondo, di guardare all’amministrazione Biden.

Ma, in un’America oramai strutturalmente polarizzata, dove molti elettori repubblicani supportano Trump a prescindere, indipendentemente dai fatti e nonostante errori visibili che hanno messo la sicurezza americana, mentre altri si irrigidiscono appena sentono il nome di Biden nonostante vi siano anche convergenze su specifiche scelte, questo passaggio non è automatico. Quindi, se l’uccisione di Al-Zawahiri avrà un impatto sulle elezioni di mid-term resta da vedere. Certamente, uccidere tre leader jihadisti in meno di un anno, in Siria e in Afghanistan dimostra che, nonostante tutti i problemi, l’amministrazione Biden fa del controterrorismo uno dei suoi punti più forti.

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