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I tormenti di Calenda? Nulla rispetto a chi dovrà governare. Scrive Campi

Da Letta che ha l’urgenza di cambiare toni e argomenti di propaganda, a Calenda stesso che ora dovrà capire se correre da solo o con Italia Viva, al centrodestra che guarda la loro campagna elettorale fatta dagli avversari. Tutti i riflessi politici della rottura della coalizione di centrosinistra nell’analisi di Alessandro Campi, politologo e docente di Storia delle dottrine politiche all’Università di Perugia

Torno nel Pd o mi faccio un partito? Mi candido o non mi candido a sindaco di Roma? Mi accordo o no con Letta? Rompo o non rompo con Letta? Stringo un patto con Renzi o corro da solo?

I tormenti dell’uomo politico vanno sempre rispettati, specie quando la posta in gioco è alta, come può essere scegliere una collocazione ideologica o un’alleanza elettorale. L’importante è non esagerare, facendo diventare l’indecisionismo – o, peggio, il decidere una cosa per poi cambiare idea subito dopo – un metodo, uno stile, un marchio di fabbrica.

In questo momento, dopo la clamorosa rottura di ieri col Partito democratico, verrebbero facili le ironie sul comportamento ondivago di Carlo Calenda. La sua breve storia politica, tutta nel segno di un presenzialismo mediatico e di un’autoreferenzialità che sono un po’ la cifra del tempo che viviamo, è piena di smentite a se stesso, di stop and go, di improvvisi cambio di passo. Sino al vero e proprio colpo di scena annunciato ieri, ovviamente in televisione, e che ha segnato la fine dell’alleanza politica più breve della storia repubblicana.

Evitiamo dunque qualunque cattiveria ad personam e proviamo a capire i riflessi politici di quel che è successo, non senza prima aver dato al leader di Azione un paio di (certamente inutili) consigli. Se vuole continuare a fare politica, come gli auguriamo avendo comunque capacità e visione, la smetta di pensare che l’unico bravo è lui e che gli altri sono tutti incapaci. Esistendo un labile confine tra inaffidabilità politica e instabilità emotiva, stia attento a non superarlo, se non vuole dare facili argomenti ai suoi sempre più numerosi, da ieri, avversari.

Ma veniamo a quel che ora potrebbe accadere. Torna ora l’ipotesi – in sé flebile stante l’attuale legge elettorale, ma politicamente non effimera – di un Terzo Polo in senso lato centrista. Al quale è sbagliato guardare, come spesso si è fatto, dal punto di vista delle micro-sigle partitiche che affollano (spesso inquinandola) la scena politica nazionale. Un soggetto politico nuovo e credibile, contro e oltre la destra e la sinistra che passa il convento italiano, non può nascere dalla sommatoria a tavolino di tante piccole formazioni spesso puramente personalistiche e prive di un’autentica base elettorale.

Conta piuttosto il comportamento dei singoli elettori. Di quei moltissimi che, sondaggi alla mano, vorrebbero un’offerta politica diversa dal momento che non si riconoscono nelle attuali coalizioni di centrodestra e di centrosinistra. Perché troppo eterogenee al loro interno. Troppo influenzate dalle loro componenti più radicali. Incapaci soprattutto di governare dopo aver vinto le elezioni, come l’esperienza dimostra.

A costoro Calenda avrebbe voluto parlare prima dell’accordo col Pd ora sfumato. Sono quelli rimasti più delusi dalla sua scelta, esclusa sino al giorno prima, di aderire ad una coalizione che, come lo stesso Letta non si stanca ormai di ripetere, ha un unico obiettivo dichiarato e tutto al negativo: frenare le destre. Questa parte di italiani – liberali, riformisti, fuoriusciti del berlusconismo, moderati anti-populisti, nostalgici di Draghi, europeisti pragmatici, occidentalisti senza sfumature, esponenti del mondo produttivo, giovani senza ideologia – come prenderà ora il ritorno di Calenda sui suoi passi e la decisione di andare nuovamente da solo? Lo apprezzerà con un sospiro di sollievo o lo giudicherà un ripensamento tardivo?

Ecco, da solo? In realtà già si parla di un accordo – che a questo punto parrebbe obbligato – tra Azione (orfana dei radicali di +Europa, rimasti fedeli all’accordo con Letta) e Italia Viva. Calenda e Renzi notoriamente non si amano: hanno un carattere troppo simile e ambiscono ad occupare lo stesso spazio politico in esclusiva. Ma a questo punto dovrebbero fare di necessità virtù. Avendo chiaro che il loro, indipendentemente dai seggi in Parlamento che comunque otterranno, sarebbe un investimento di lungo periodo. Si tratta di scommettere, in altre parole, sulla fine del finto bipolarismo vigente in Italia, fatto non da partiti solidi ma da alleanze magmatiche e instabili (soprattutto alla prova del governo). Ma questo significherebbe guardare lontano, oltre la data del 25 settembre, esattamente quel che la politica italiana, tutta rivolta al “qui e ora”, non riesce più a fare.

E Letta, i cui tentennamenti, detto con onestà, non sono stati inferiori a quelli di Calenda? Ora in teoria ha le mani libere per fare quel che forse avrebbe dovuto fare sin dall’inizio: un accordo elettorale col M5S, anche se formalmente l’ha escluso ancora. Ma mai dire mai nella politica italiana, specie di questi tempi.

Se l’argomento tecnico-politico usato per giustificare il doppio patto con Azione/+Europa e la sinistra radicale è la rigidità della legge elettorale vigente, allo stesso argomento ci si poteva tranquillamente richiamare per un’intesa “pragmatica” con Conte, suggeritagli da molti esponenti del suo stesso partito che ora torneranno certamente alla carica. Se il pericolo da evitare, come non si smette di dichiarare a sinistra, è l’assalto alla Costituzione e alla democrazia in caso di vittoria dei sovranisti cosa volete che contino i distinguo programmatici con i grillini sui termovalorizzatori o sull’invio di armi in Ucraina? Si rischia ora di arrivare a questa soluzione dopo un giro tortuoso che è servito solo a confondere gli elettori progressisti e a dare lavoro extra ai cronisti parlamentari.

Un modo diverso di leggere le cose è che Letta, memore dell’esperienza prodiana dell’Ulivo, alla quale evidentemente si ispira anche culturalmente, ha provato a mettere insieme tutto quel che poteva, giocando su più tavoli, ponendosi come mediatore e garante tra i suoi diversi (soprattutto tra loro) avversari. Forse ha osato troppo, anche in doppiezza. Forse semplicemente non ha la forza aggregante e persuasiva che avevano Romano Prodi e Silvio Berlusconi (un altro capace di tenere insieme tutto e il suo contrario). Fatto sta che adesso Letta ha meno alleati sui quali puntare. Rischia inoltre di sbilanciarsi troppo a sinistra, il che però non dovrebbe essere un problema per un partito di sinistra. Anche se il suo problema, da quando è partita questa bizzarra campagna elettorale, è a ben vedere un altro: non ha ancora spiegato agli italiani, oltre a nascondersi dietro un effimero draghismo senza Draghi, per quali ragioni programmatiche e progettuali gli italiani dovrebbero votare il Pd e la galassia di partiti che gli gravita intorno. Si è scelto di proporsi come potere frenante contro la barbarie, ma gli italiani in questo momento non pensano al fascismo che marcia nuovamente su Roma cent’anni dopo, ma al lavoro e alle bollette. Cambiare i toni e gli argomenti della propaganda, indipendentemente da chi sono i suoi alleati, è probabilmente la vera urgenza di Letta.

Ci sarebbe da dire anche del centrodestra alla luce del retournement calendiano, ma l’analisi in questo caso viene facile: i suoi leader ringraziano e ridacchiano. La loro campagna elettorale la stanno facendo gli avversari. Anche se il problema del centrodestra – chiarissimo soprattutto alla vincente annunciata, Giorgia Meloni – non è il responso delle urne, ma quel che accadrà dopo. Con l’Italia in recessione, combattuta tra inflazione e disagio sociale, tra aziende in crisi e famiglie allo stremo, e senza contare l’instabilità internazionale, governare, decidere e scegliere sarà un esercizio drammaticamente difficile. Altro che i tormenti odierni di Carlo Calenda!



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