Il miglioramento della situazione negli Stati Uniti sul fronte dell’inflazione è certamente una buona notizia, ma non contagia anche l’Europa. Perché? Lo spiega Giuseppe Pennisi
Da dieci giorni giungono dagli Stati Uniti buone notizie sul fronte dell’inflazione. In primo luogo, in luglio l’indice generale dei prezzi al consumo non è aumentato e l’indice di “core inflation” (ossia quello dei prezzi al consumo depurato dai prezzi dell’energia e degli alimentari) è rimasto al 5,9% il più basso degli ultimi sei mesi. In secondo luogo, dopo più di un anno di dibattiti e di confronto tra Capitol Hill e la Casa Bianca, il presidente Joe Biden ha firmato l’Inflation Reduction Act che ora è legge federale. In terzo luogo, proprio mentre l’inflazione si stabilizzava e dava segni di non crescere, l’economia americana ha creato 530.000 posti di lavoro.
Utile fare un po’ di ordine. L’Inflation Reduction Act (IRA) ha poco o nulla a che fare con l’ondata d’inflazione che turba l’economia internazionale da più di un anno. In effetti, è il nome dato ad un disegno di legge (Build Back Better – BBB) che rischiava di restare bloccato per sempre. In effetti, la sua parte più significativa è l’applicazione di una minimum tax del 15% del “reddito contabile” delle aziende che macinano utili superiori ad un miliardo di dollari l’anno. Dati che nel complesso diritto tributario americano, non il “reddito contabile che si dichiara a fini fiscali (ci sono numerose tax expenditures), numerosi specialisti temono che la nuova minimum tax finirà per appesantire ulteriormente il sistema. Al Tesoro, invece, si dicono convinti che porterà all’erario 300 miliardi di dollari nell’arco dei prossimi dieci anni. Comunque è un problema che non sfiora l’Europa. Così come non riguardano il Vecchio Continente le numerose misure per incoraggiare la transizione ecologica negli Stati Uniti, dove potranno incidere sull’andamento, a medio termine, dei prezzi di qualche prodotto o servizio ma non più tanto. Una parte dell’IRA potrà incidere sui prezzi dei farmici e delle cure (agli anziani): quella che consente a Medicare (il gigante sanitario dedicato agli anziani) – anzi la obbliga – a negoziare in blocco contratti per medicinali, cure e case di riposo; se il costo di tali contratti supera la media dell’inflazione, Medicare può mettere “un tetto” ed anche chiedere un rimborso.
Terzo punto, la crescita vigorosa dell’occupazione in una fase in cui l’inflazione pare in calo o quanto meno di avere smesso di crescere. Nelle università, sino ad una quindicina di anni si studiava il NAIRU (non accelerating inflation rate of unemployment – il tasso di disoccupazione al quale l’inflazione non accelera – chiamato anche “tasso naturale di disoccupazione”). Per un lungo periodo, ce ne si è disinteressati. L’andamento insolito dell’occupazione e dell’aumento dei prezzi negli ultimi due anni ha suscitato interesse per la materia pur da parte da tempo dalle autorità monetarie americane, nonché del mondo accademico e degli istituti di ricerca. L’ipotesi più accreditata è che la pandemia ha inciso fortemente sul NAIRU aumentandolo, in una prima fase (secondo alcuni studi sarebbe arrivato al 15% alla fine del 2020) per poi farlo scendere (al 6% negli ultimi mesi). Con un tasso di disoccupazione pari al 6% della forza lavoro, ciò vuol dire che nonostante i segni di flessione dell’inflazione, negli Usa continuerà la tendenza all’aumento dei salari.
Quale è il quadro europeo? Il miglioramento in atto negli Stati Uniti dell’inflazione può farci nutrire speranze analoghe? Non certo alla Banca centrale europea (Bce). La Bce vede un quadro in peggioramento per la crescita nell’area euro, e “non esclude la possibilità che stiamo entrando in una recessione tecnica”. Ma l’inflazione preoccupa di più: “Le preoccupazioni che avevamo a luglio non sono state alleviate”. Lo ha detto Isabel Schnabel, del Comitato esecutivo della Bce, riferendosi alla decisione di alzare i tassi di mezzo punto a luglio e alle prospettive per la riunione dell’8 settembre. “Se si guarda a una qualsiasi delle misurazioni dell’inflazione di fondo, stanno salendo ulteriormente e sono ai massimi storici”, ha detto il 18 agosto Schnabel in un’intervista alla Reuters pubblicata sul sito della Bce.
In primo luogo, occorre sottolineare che la determinante che traina l’inflazione in Europa è profondamente differente da quella che “tira” l’inflazione americana. Nell’Unione europea (Ue) siamo alle prese con un’inflazione da costi, specialmente dell’energia ed in particolare del gas naturale. Su questa determinante, almeno nel breve periodo, l’Ue non ha strumenti con i quali incidere, almeno nel breve e medio periodo: la diversificazione geografica delle fonti di approvvigionamento (a cui il Governo Draghi sta lavorando alacremente da mesi) richiede tempo, la messa in atto di impianti di gassificazione ancora di più, certamente molto di più l’attivazione di centrali nucleari. L’unico modo per calmierare l’inflazione è contenere la domanda di energia con grandi problemi per le famiglie e per le imprese.
In secondo luogo, perché il NAIRU europeo non ha un andamento analogo a quello americano? Il mercato del lavoro Usa è molto più flessibile (dal lato sia dell’offerta sia della domanda), i sussidi dati dall’Amministrazione Trump sia da quella Biden durante la pandemia sono stati ben definiti nel tempo e molto semplici. In Europa, i mercati del lavoro sono piuttosto rigidi, soprattutto in Italia, e sussidi elargiti sotto forma di “bonus” a questo od a quello hanno complicato la situazione. Senza parlare del “reddito di cittadinanza”, che nasconde la disoccupazione ed incoraggia il lavoro nero.