Il Martini che ho conosciuto e che qui ricordo, credo sia quello più rivoluzionario e più autentico, non ridimensionabile, e di vitale importanza per il futuro, forse dissonante ma certamente convergente con la visione del dialogo ebraico-cristiano voluta da Giovanni Paolo II e Benedetto XVI
Dieci anni fa spirava a Gallarate, nei pressi di Milano ma già in provincia di Varese, un grande uomo, che da giovanissimo ebbi il privilegio di conoscere, il cardinale Carlo Maria Martini.
Incontrai Martini più volte in Italia e in Israele. L’ultima volta che lo vidi fu alcune settimane prima del suo trapasso. Accompagnavo, con mons. Gianantonio Borgonovo, il rabbino Giuseppe Laras, suo vecchio amico, persona straordinaria e intellettuale d’eccezione. A cavallo tra intimità e ufficialità, tra intelligenze fulminee e infermità, assistetti così all’estremo congedo tra due amici; tra due intelletti credenti e affini; tra due autorità religiose, estremamente serie, e tra loro in schietto e leale dialogo.
Due persone difficili, riservate e schive. Due vecchi piemontesi, pieni di riservatezza sabauda e un po’ ingessati. Entrambi austeri, perfino ieratici; entrambi alti ed elegantissimi: Laras con la sua eleganza stropicciata, l’altro naturalmente avvezzo alla nobiltà della porpora. Due uomini consumatisi, sin da ragazzini, sui libri e su studi sofferti. La confidenza tra loro era plasmata da pudore, da rispetto e da una conoscenza vicendevole che arretrava a numerosi anni.
Torino era ormai dietro di loro da tempo, avversata da Laras per via della persecuzione nazifascista abbattutasi colà sulla sua famiglia, di cui egli -in tenerissima età- fu vittima. Milano fu per entrambi il luogo della piena maturità, la Città verso cui assunsero responsabilità sia comunitarie sia pubbliche, civili e culturali. In larga misura non furono capiti: vennero strattonati sia dagli avversari sia da certi improvvidi sostenitori e, in parte, personalmente ne soffersero.
La loro caratura religiosa, intellettuale e morale fece tuttavia sì che riuscissero a imporsi e a stagliarsi. Milano fu il posto ove il cardinale e il rabbino si conobbero e collaborarono, lanciando ai massimi livelli in Europa il dialogo ebraico-cristiano. Ciò avveniva nel pieno del dirompente pontificato di Giovanni Paolo II, che, con il rabbino capo di Roma Elio Toaff, impresse a quel preciso e specifico dialogo la svolta straordinaria e decisiva, a oggi non eguagliata, e che anzi ora, purtroppo, è per molti versi languente in trascurata, marginale archeologia. Israele, per entrambi, pur nella loro irriducibile diversità esistenziale e religiosa, fu un riferimento costante, un anelito, una cura solerte, un’ispirazione, un impegno, una speranza.
Martini avrebbe voluto riposare in quella Terra (e, almeno in parte, fu esaudito, dal momento che nella sua tomba vi è una manciata di terra di Eretz Israel); Laras, fiero sionista, per scelta sua e dei suoi familiari vi è sepolto. Rare volte vidi il cardinale da solo. Spesso lo incontrai con Rav Laras. Sovente mi era concesso di partecipare a buona parte del colloquio tra loro, come avvenne nell’ultima visita. Tuttavia, talvolta, specie per questioni assai delicate -riguardanti il Papa, la Cei e la politica vaticana; le relazioni Israele-Santa Sede; l’antisemitismo cristiano di ambito retrivo o, non meno diffuso e insidioso, di area “cattocomunista-progressista”; le costanti dichiarazioni antiebraiche delle Chiese Orientali, specie in Israele, riprese dalla stampa cattolica…-, mi veniva chiesto di congedarmi. Quei due uomini mi affascinavano, come solo poche altre persone -donne e uomini- sono riuscite in questi miei trentotto anni.
Mi affascinava il loro sapere e il loro rigore; la vastità della loro conoscenza, la profondità dell’intelletto, lo scrupolo per il ragionamento corretto e ben condotto, la sintesi asciutta che sapevano trarre; la comprensione del reale e lo studio costante, severo ed esigente. Erano uomini ben consci di chi erano e di ciò che rappresentavano, ed essendo persone sufficientemente oneste non si lasciavano sedurre dalla finta umiltà, sempre dilagante in certi ambienti. Erano certamente dei duri ed erano persone rette. Erano, uno ebreo l’altro cristiano, schiettamente credenti, con nitida e abbastanza serena fiducia, nel provvidente e onnipotente Creatore del cielo e della terra, che Si è rivelato nelle Scritture di Israele.
La sera del 30 agosto 2012 fui avvisato dalla curia arcivescovile delle condizioni gravissime in cui versava il cardinale per informarne prontamente il rabbino. Il pomeriggio successivo, quasi a ridosso dell’ingresso liturgico di Shabbat, Martini morì. Sono passati dieci anni da allora. Nel frattempo, un papa, forse l’ultimo grande pensatore cristiano, si è dimesso; alla cattedra metropolitana su cui era assiso Martini si sono succeduti altri presuli, e anche Laras è morto, nel 2017, stroncato da una malattia ai polmoni, insorta per i suoi trascorsi di fumatore, nonostante avesse drasticamente smesso di fumare alcuni anni prima.
Recentemente i cristiani armeni sono stati vittime di nuove violenze efferate da parte dei turchi e dei loro alleati; i cristiani iracheni sono stati massacrati da Daesh e i copti in Egitto continuano ad avere vita durissima, specie quando il governo egiziano fu sotto la guida dei Fratelli Musulmani, ben strutturati e prosperanti in ogni Paese europeo. In Francia decine di chiese e cattedrali negli ultimi tre anni sono state incendiate, nell’immane silenzio di tutti. Gli ebrei francesi e belgi sono -a decine di migliaia- in fuga dai loro Paesi per via del crescente antisemitismo islamico.
Il dialogo ebraico-cristiano si è eroso, e vi è terrore a mettere a fuoco queste situazioni. L’antisemitismo è ai suoi massimi storici dalla fine della Seconda guerra mondiale. La scristianizzazione dell’Europa procede a passi velocissimi nell’incuranza generale -anche ecclesiastica!-, dacché motus in fine velocior, con lo sgretolarsi della sua complessa identità e l’imperversare feroce del non-pensiero, tra cui svetta, da ultima, la cancel culture. Le università inglesi -e non solo loro- mettono al bando i classici greci, latini, inglesi, italiani non allineati, “problematici” e “non politically correct”, tra cui Dante, Shakespeare, Kant, Chesterton, Tolkien, Orwell e così via… E, per dirla con le parole dell’insigne filosofo cattolico Rémy Brague, tanto apprezzato da Laras, è diventato difficile, se non eversivo e pericoloso, “dire che un gatto è un gatto”.
E anche Martini, suo malgrado, in ampia misura è stato strattonato, specie post mortem. Qualcuno ne volle fare, compiacendo i tempi e a essi asservito, un araldo del relativismo post-post-moderno, opponendolo a Ratzinger. Peccato che Martini, quando ragionava di ‘relativismo cristiano’, avvertisse inequivocabilmente che esso consisteva nel “leggere tutte le cose in relazione al momento nel quale la storia sarà palesemente giudicata”, laddove il tutto è in relazione alle Scritture, alla luce di quest’ultime vagliato e, infine, teso al loro compimento.
Altroché il relativismo liberal dei salottieri à la page, sempre “inclusivi” (e costoro, tra le tante sciagure arrecate, sono riusciti anche a rendere odiosa una parola altrimenti degna e preziosa -inclusivo-)! Vi è poi il Martini che, all’Università Cattolica, nel ricevere una laurea honoris causa, affermò, senza se e senza ma, che la Bibbia costituisce il grande codice educativo e programmatico dell’Europa, la radice e il futuro dell’Europa e dell’Occidente, il suo spirito più autentico e vitale. La Bibbia. E, proprio in siffatta prospettiva, si inseriva necessariamente e naturalmente il dialogo ebraico-cristiano, con le sue potenzialità e responsabilità; e il ragionamento si faceva concreto, topico -coinvolgendo Israele e l’ebraismo- e non u-topico. Questo Martini, che ho conosciuto e che qui ricordo, credo sia quello più rivoluzionario e più autentico, non ridimensionabile, e di vitale importanza per il futuro, forse dissonante ma certamente convergente con la visione del dialogo ebraico-cristiano voluta da Giovanni Paolo II e Benedetto XVI.