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Successi e fallimenti delle riforme economiche di Gorbaciov

Di Stefania Jaconis

Il demiurgo della trasformazione russa è stato un burocrate provinciale di Stavropol che una cultura, una capacità di visione e un’intelligenza fuori del comune hanno portato a diventare, per tutto il mondo, il simbolo di rivolgimenti epocali. L’approfondimento dell’economista Stefania Jaconis

La scomparsa di Michail Gorbaciov fornisce lo spunto per varie riflessioni, in ambiti diversi. Qualunque valutazione della statura (in ogni caso gigantesca) dell’uomo non può prescindere dalla considerazione del suo destino storico e politico – concluso, in modo inequivocabile, nel segno della sconfitta. In senso lato, la sua sconfitta è stata in gran parte quella del “sovietismo” (idea, ipostasi ma soprattutto realtà fattuale di peso planetario) a vantaggio di una realtà geopolitica nuova, quella di una Russia che, ormai sotto il comando dell’eroe “nazionale” Eltsin, assisterà quasi con indifferenza al crollo dell’ impero, nel 1991.

La morte del grande leader sovietico avviene in un momento in cui il nuovo ordine internazionale innescatosi con la caduta dell’ Unione viene sfidato in modo violento, e ripercorrere alcuni momenti dell’ iter conclusosi con la dissoluzione dell’Urss può essere utile anche per avvenimenti più vicini nel tempo. Fermo restando, ovviamente, che le concatenazioni temporali non sono anche causali, e che qualunque analisi delle vicende recenti di quella parte del mondo non può prescindere dal fatto che in poco più di trent’anni quell’universo è geneticamente mutato, è diventato “altro” – in modo assoluto e per molti aspetti (non tutti) irreversibile.

Quello che importa dire oggi è che il demiurgo di questa trasformazione è stato un burocrate provinciale di Stavropol che una cultura, una capacità di visione e un’intelligenza fuori del comune hanno portato a diventare, per tutto il mondo, il simbolo di rivolgimenti epocali. In Russia, quelli che oggi esprimono pubblicamente gratitudine a Gorbaciov lo fanno soprattutto in considerazione dell’ avanzamento di civiltà da lui determinato, avanzamento epitomizzato dal carattere nuovo assunto dal binomio stato-cittadino. Infatti non si insisterà mai abbastanza, a proposito dei trascorsi sovietici della Russia di oggi, nel ricordare come nel periodo 1985-90 il desiderio finalmente appagato di libertà di riunione, di parola e di voto fossero le leve sociali che permettevano ai comuni cittadini, riconosciutisi membri di una nuova società civile, di convivere con una realtà economica molto aspra, che si manifestava con carenze crescenti di beni e dilagare di mercati paralleli. Per i più disagiati, si trattava a volte di convivere con la fame.

E ci si conviveva, nel nome di conquiste di civiltà che abbiamo imparato a denominare con vocaboli russi – glasnost’, perestroika – e che hanno segnato la fase e la parte vincente della leadership di Gorbaciov. Una leadership che si è dispiegata tutta nel segno di quell’Unione Sovietica di cui è stato, per poco più di un anno, il primo e ultimo Presidente (la carica venne istituita da lui stesso nel 1990). Intanto, la riforma costituzionale del dicembre ’88 aveva creato il Congresso dei Deputati del Popolo, per la prima volta sganciato dal Partito, che si sperava avrebbe acquisito le prerogative di un vero e proprio Parlamento. Ciò non accadde, e i problemi pratici della popolazione per il momento rimanevano. Ma i cittadini sovietici poterono assistere, per la prima volta, a una campagna elettorale ‘vera’, quella per le elezioni del marzo dell’ 89. L’ entusiasmo popolare era immenso: gli scaffali vuoti dei negozi passarono in secondo piano grazie all’emergere prorompente dei media ‘liberi’, che proponevano a tempo pieno le sedute del Congresso e gli scontri memorabili tra i due deputati più carismatici, Sakharov e Eltsin. Il primo destinato a morire poco dopo, il secondo avviato a detronizzare Gorbaciov nel segno della nuova Russia vincente. Russia contro Unione Sovietica, appunto, e Eltsin come eroe ‘russo’, in una fase in cui si ampliavano le istanze autonomistiche delle Repubbliche dell’Unione: meno di un mese dopo la nomina di Gorbaciov al posto di Presidente dell’ Unione la Lituania proclamerà la sua indipendenza, dando così inizio alla disgregazione, e quindi al crollo, dell’ impero. Con le sue dimissioni dalla posizione di Presidente si chiude di fatto la vicenda politica di Gorbaciov, tutta incentrata sull’ esistenza dell’ Unione – e dell’ universo – sovietici.

Le misure da lui promulgate nel periodo 1986-90 riguardano dunque da una parte la gestione e il rinnovamento del complesso mastodontico ereditato dagli anni staliniani, quell’economia a pianificazione centrale che nel tempo aveva subito tentativi falliti di emendamento, e dall’ altra le posizioni assunte nei confronti del resto del mondo, dall’ acquiescenza rispetto alla riunificazione delle due Germanie al ritiro dall’Afghanistan e al riavvicinamento all’ Occidente in chiave antinucleare. A queste prese di posizione, fortemente caratterizzanti il gorbachevismo dei primi anni, vanno senz’altro accostate le riforme socio-politiche, quelle in cui si incarnò il processo reale di democratizzazione del mondo sovietico e che, come detto, riguardano in senso lato il rapporto stato-cittadino.

Su queste due ultime categorie si è detto e scritto molto, anche in questi giorni; pensiamo quindi possa essere utile soffermarsi brevemente sui tentativi – in gran parte non riusciti – di riformare il sistema economico del Paese, quell’economia di tipo sovietico che solo il declino secolare del sistema sembrava lentamente scalfire.  Gli anni della stagnazione brezhneviana avevano tuttavia accelerato il processo degenerativo, con una perdita progressiva di efficienza produttiva e un aumento degli squilibri monetari (risparmio forzoso e inflazione repressa) che inficiavano pesantemente i conti pubblici. Il deficit del Bilancio dell’ Unione Sovietica era secretato, ma da studi occidentali si sapeva che il Paese continuava a destinare circa il 40% delle sue risorse a spese collegate al complesso militare. Tutto questo in una situazione di penuria crescente di prodotti finali, beni di consumo e alimentari. La situazione era esplosiva, con punte di malcontento che ogni tanto, anche se raramente, avevano manifestazioni aperte – come nel caso dell’ imponente sciopero dei minatori siberiani nei primi anni di governo di Gorbaciov.

Il nuovo leader iniziò dunque con una revisione dei meccanismi del sistema economico del Paese, ancora pienamente sovietico. Erano quindi riforme che non si ponevano, ad esempio, il problema dello scambio ineguale tra il centro e la periferia dell’ impero: problema complesso e mai risolto, nell’ intricato sistema di tasse, sussidi e dotazioni che vedevano da una parte il Bilancio Federale e dall’ altra quelli delle Repubbliche – diverse tra loro quanto potevano esserlo l’ Estonia e il Turkmenistan. Le riforme economiche gorbacheviane riguardavano l’operaio e il manager sovietico, nel senso più ampio del termine, che dovevano essere portati ad operare in modo da tornare a riempire gli scaffali dei negozi, penosamente sempre più vuoti. Si operava in un universo teorico che non distingueva tra la micro- e la macroeconomia, e che di quest’ultima non considerava la complessità delle interdipendenze e i meccanismi di equilibrio.

La prima fase della riforma economica di Gorbaciov è associata alla cosiddetta strategia dell’ accelerazione (uskorenie): con questa ci si limitava ad imprimere una svolta nelle scelte di sviluppo, con la priorità data all’ industria meccanica ed alcune autonomie concesse alle imprese, senza che tuttavia venissero intaccati i meccanismi di fondo del sistema. Successe però che l’ accelerazione degli investimenti, attuata per contrastare la diminuita efficienza microeconomica, comportò una pressione ulteriore sulle risorse, che per di più venivano incanalate in un settore tecnologicamente maturo, e quindi ingenerò spinte inflazionistiche aggiuntive. Le commesse pubbliche continuavano a rappresentare una parte sostanziosa della domanda globale, e con esse le elargizioni generose di fondi, mentre non venivano rivisti né il meccanismo di formazione dei prezzi né le norme che regolavano il commercio internazionale; il sistema bancario continuava di fatto ad essere parte costituente della Monobanca statale. Una legge che favorì il nascere di cooperative semiprivate ebbe scarsissimi effetti di liberalizzazione del commercio. In breve, l’ approccio parziale ma generico delle riforme degli anni ’86-90 non favorì ma addirittura allontanò quell’aumento di efficienza micro- e macroeconomica di cui il sistema sovietico aveva assolutamente bisogno: la ‘concorrenza’, che era stata in gran parte raggiunta nell’ universo politico, non riguardava ancora il modus operandi dell’ economia.

A questo punto occorre forse ricordare che una lettura semplicistica dell’ operato di questo gigante politico lo vede come perpetratore di riforme politiche e sociali di grande rilevanza, ma di riforme economiche del tutto fallimentari. Le motivazioni sarebbero varie: l’ultima, avanzata recentemente dallo storico dell’ economia Christopher Miller, attribuisce la causa del fallimento delle riforme economiche gorbacheviane all’ esistenza e alla resistenza di gruppi di interesse, attivi a vario livello. Altre spiegazioni fanno riferimento all’ inerzia del sistema di piano, ai suoi elementi intimamente coesi e ai meccanismi di feedback incorporati che questi presentavano: in fin dei conti, il periodo della cosiddetta stagnazione dell’ economia sovietica è durato decenni, durante i quali non si sono avuti né rivoluzioni né ribaltamenti sistemici. Altre ancora, in modo più generico, si basano sulla complessità della transizione sistemica all’ economia di mercato, in una situazione in cui gli economisti del paese non avevano la minima idea di come questa funzionasse… La convocazione delle migliori teste del Paese produsse un piano economico di transizione in 500 giorni i cui presupposti irreali non lo posero mai veramente sul tavolo della discussione. Gorbaciov, l’ uomo venuto da un altro pianeta, assisteva costernato e preoccupato, gigante tragico perso nell’attesa di un mondo che riusciva a vedere, ma non a realizzare.

Come sappiamo, la vicenda della riforma economica russa prende tutt’altra piega a partire dal 1991, con l’avvio del più imponente processo di privatizzazione e di liberalizzazione mai posto in essere e la scelta, rispetto a meccanismi di trasformazione graduali, della cosiddetta ‘terapia shock’, attuata con il supporto dei principali organismi monetari e finanziari internazionali. Si è trattato, come noto, di una terapia estremamente costosa in termini di risorse devolute e di risultati ottenuti, dalla spesso dubbia efficienza, soprattutto per quanto attiene agli aspetti distributivi e sociali. Ma Mikhail Sergeevich Gorbaciov, che fu sempre ispirato dalla ricerca di un mondo più libero e più equo, non poteva più dire la sua, perché non contava più nulla.

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