Un abile leader all’apice del potere, il nuovo Mao. Un’immagine vera solo in parte: ecco chi si troverà contro durante il ventesimo congresso del Partito Comunista, che inizierà il 16 ottobre 2022
All’estero l’immagine di Xi è quella di un abile leader all’apice del suo potere, un leader che dichiara la Cina “invincibile” e che proietta un’immagine di sé assolutamente fiduciosa. Il nuovo Mao Tse Tung che gode del totale controllo degli apparati governativi, burocratici e militari della Repubblica Popolare. Se questa immagine è parzialmente vera, un reportage di Foreign Affairs rivela che alcune crepe si sono aperte nel sistema di potere del Segretario Generale del Partito, Presidente della Repubblica Popolare Cinese, Presidente della Commissione militare centrale.
Domenica 16 ottobre 2022 si apriranno i lavori del ventesimo congresso nazionale del Partito Comunista Cinese (PCC). Molto probabilmente Xi otterrà il suo terzo mandato quinquennale, forse dopo lunghe discussioni con alcune fazioni dell’élite. Una volta ottenuto il mandato possiamo aspettarci una presa ancora più salda sul Paese e una rinnovata assertività in politica estera. In preda a un circolo vizioso che vede il leader parare i colpi delle fazioni opposte interne al partito aumentando l’intensità e la violenza degli scontri, Xi potrebbe alzare il tiro prendendo decisioni catastrofiche, quali ad esempio l’invasione di Taiwan.
La Cina ha una lunga tradizione, dalla morte del Grande Timoniere, di leadership competente e stabile. Per molti versi il Partito non ha subito grandi cambiamenti dalla nascita: oggi come allora la fusione tra Partito e Stato è pressoché inscindibile, con il primo che controlla totalmente l’esercito, le burocrazie centrali e locali, e l’organo legislativo. Lo schema di potere è il seguente. Il Partito risponde al Comitato Permanente del Politburo, l’organo decisionale supremo. Questo è composto da nove membri provenienti dal Politburo allargato, ed è diretto dal segretario generale, la posizione più rilevante nella politica cinese. Xi ricopre questa carica dal 2012.
Ulteriore immutata caratteristica del Partito (probabilmente non solo di quello cinese) è l’importanza centrale delle relazioni personali, della fedeltà della famiglia all’ideologia, e al Partito stesso. Come ha recentemente scritto su queste colonne il sinologo Francesco Sisci, la carriera di di Xi Jinping è costellata da episodi di stretta vicinanza familiare a leader dell’epoca maoista: lo stesso Mao Tse Tung, Zhou Enlai, Gao Gang. Negli anni Ottanta Xi Jinping è capo partito distrettuale nella provincia di Hebei e tenta, fallendo, il salto di qualità al livello provinciale. L’episodio che darà inizio alla sua carriera arriverà nel 1992, quando grazie all’interessamento di Jia Quinglin, Xi viene trasferito nella capitale provinciale di Fujian.
Come riporta Cai Xia, per vent’anni docente di teoria politica alla prestigiosa CCP Central Party School e ora esule negli Stati Uniti, il Partito Comunista Cinese somiglia sempre di più a un’organizzazione mafiosa, con “picciotti” di basso rango che devono seguire il proprio “boss” nella speranza di fare carriera. Se un “boss” decade, automaticamente anche tutta la sua linea di protetti crolla. L’apice del sistema è il capo del Partito, il “Don”, al di sotto del quale siedono i vari sottoposti del Comitato Permanente, ognuno con diversi ruoli tematici (esteri, economia, anticorruzione, eccetera..). Al di sotto di questi si trovano gli altri diciotto membri del Politburo allargato, i successori in linea dei membri del Comitato Permanente. Sono gli esecutori materiali degli ordini di Xi, in cambio possono accumulare ricchezze come meglio credono, utilizzando metodi molto simili a quelli mafiosi. Gli effetti di questo sistema vengono spesso visti all’estero come lotte ideologiche , quando sono quasi sempre lotte per il potere delle diverse fazioni interne.
Vediamo ora cosa è cambiato nel PCC. Quando Deng Xiaoping salì al poter nel 1978 cominciò una serie di riforme istituzionali, come ad esempio la limitazione a due possibili mandati presidenziali, e soprattutto aprì la strada a un sistema di potere bicefalo. Nei decenni successivi si sentiva spesso parlare del tandem Presidente della Repubblica-Capo del governo: il sistema Jiang Zemin-Zhu Rongji, o il sistema Hu Jintao-Wen Jiabao. Inoltre cambiò il processo di selezione dei membri del Comitato Centrale aprendo a un metodo certamente non democratico, ma sicuramente meno elitario, con esempi di personaggi di grande caratura che non ricevettero voti sufficienti per entrare nel Politburo, come l’ideologo maoista Deng Liqun. E’ interessante tralaltro notare che nell’elezione del 1997 Xi Jinping fu il candidato eletto con il minor numero di voti. Un episodio che rimarcava il disprezzo dei funzionari di partito verso le politiche di nepotismo, secondo Cai Xia.
Le riforme vennero portate avanti dal successore di Deng, Jiang Zemin, che approfondì l’apertura del sistema di vertice iniziata dal predecessore, rendendo il Comitato Permanente un effettivo organo di governo collegiale con votazioni a maggioranza e un percorso di accesso maggiormente competitivo. Inoltre sia Jiang sia, successivamente, Hu Jintao proseguirono con le politiche per il contrasto al culto della personalità, considerato un pericoloso ricordo dell’era maoista.
Ironia della sorte, Xi Jinping ha dato un’impennata alla sua carriera proprio durante questo periodo di “democraticizzazione” del sistema. Nel 2007 Xi ricevette la maggioranza dei voti in un’elezione in cui i circa quattrocento membri di vertice del Partito sceglievano da una lista di duecento nomi i venticinque che sarebbero entrati nel Politburo. Cinque anni dopo, nel 2012, il leader raggiunge il vertice della piramide, eletto Segretario Generale del PCC.
Le prime mosse del leader segnano la sua morsa sul Partito e sul popolo cinese. La prima è quella di Internet. Secondo Xi, Internet pone una minaccia esistenziale al Partito che non è più in grado di controllare le menti delle persone. La risposta è la creazione del “Great Firewall”, una gigantesca operazione cibernetica che costruisce un muro virtuale, limitando l’accesso dei cinesi ai siti web stranieri.
La seconda mossa è la campagna anticorruzione lanciata dal Segretario. Nelle intenzioni ufficiali, una campagna per combattere la corruzione morale e materiale del Partito, per evitarne il collasso. Con la corruzione fenomeno endemico nella Repubblica Popolare, questa misura si rivela una formidabile arma di ricatto nelle mani di Xi e dei suoi accoliti. Praticamente qualunque funzionario, dai livelli di vertice a quelli distrettuali, può essere accusato di corruzione: i dati ufficiali, come riportati dal The Diplomat, mostrano che dal dicembre 2012 al giugno 2021, gli organi disciplinari del PCC hanno condotto investigazioni su 393 dirigenti quadri, personaggi in lizza per le più alte posizioni di potere, e su 631’000 funzionari di livello distrettuale.
Nei fatti, la campagna è stata una purga, che ha colpito alcuni tra i più potenti nemici di Xi Jinping, come Zhou Yongkang, l’ex capo degli apparati di sicurezza, e Sun Zhengcai, membro del Politburo considerato da molti un possibile successore. Al contrario, le figure chiave nell’aiutare l’ascesa di Xi sono rimaste inviolate. Inutile dire che la famiglia Xi non è stata toccata dalle misure anticorruzione, nonostante il The Guardian nel 2016 avesse rivelato che i Panama Papers mostravano i conti offshore della famiglia. La “Nuova Armata dello Zhijiang”, questo è il nome con cui all’interno del Partito si indica la corrente di Xi. I suoi sodali provengono da ogni contesto attraversato dal Segretario, ex colleghi provinciali, vecchi amici, perfino compagni di scuola, i quali naturalmente spesso non possiedono le competenze necessarie per i ruoli che ricoprono.
La rivoluzione di Xi, però, è un’altra. La sua leadership ha portato al completo annullamento delle riforme amministrative iniziate da Deng Xiaoping per separare le burocrazie dal PCC, in uno sforzo per aumentarne la professionalità, evitando interferenze politiche su decisioni tecniche. L’attuale Presidente ha creato circa quaranta commissioni di partito ad hoc che fondamentalmente gestiscono le agenzie governative. Un esempio su tutti: la creazione di una squadra che riporta direttamente al vertice per le questioni del Mar Cinese Meridionale, di fatto scavalcando il Ministero degli Esteri e la State Oceanic Administration.
L’effetto è quello di erodere il potere del governo e del suo premier Li Keqiang, e di marginalizzare quest’ultimo. I due leader non posano nemmeno più insieme nelle foto ufficiali, come vorrebbe la tradizione. Xi ha modificato anche le dinamiche relazionali con il Comitato Permanente: è la prima volta nella storia del Partito che i membri dell’organo devono riferire direttamente al capo del Partito, che controlla personalmente le loro performances. Il Segretario del PCC, Presidente della Repubblica Popolare Cinese, Presidente del Comitato Militare Centrale somiglia sempre più a un imperatore con la sua cerchia di dignitari.
In aggiunta, è stato nei fatti ripristinato il culto della personalità, formalmente bandito dalla costituzione del PCC. Dal 2016 Xi gode dell’appellativo di “leader centrale del Partito”, un epiteto mai utilizzato con nessuno dei suoi predecessori post-Mao. Il grado di lealtà e ammirazione per il leader raggiunge un livello per cui i vertici di Partito tengono i suoi ritratti in ufficio. I dipinti e le statue si trovano ovunque, dalle scuole agli edifici governativi, nelle case e perfino nei siti religiosi. Episodio significativo è quello del 2017, quando un cronista dell’organo di stampa statale Xinhua si è riferito a Xi con appellativi del tipo “lavoratore diligente per la felicità del popolo”, o “architetto capo della modernizzazione nella nuova era”. Si è arrivati a proporre una collezione di frasi del leader invitando i cittadini a memorizzarne il contenuto, sulla falsariga del Libretto Rosso di Mao. All’interno del PCC la fazione del Segretario persegue lo slogan del lasciarlo continuare a governare finché non sarà completato il ringiovanimento della Nazione cinese.
Dal punto di vista economico Xi vede il settore privato come una minaccia al proprio dominio, prova ne sia il recupero di politiche di pianificazione statale dell’era maoista. Le imprese statali sono state rafforzate e le organizzazioni di partito ormai hanno totalmente penetrato le aziende private. Le regolamentazioni in materia di antitrust e corruzione sono state una leva per espropriare di fatto gli asset dalle compagnie e dagli imprenditori.
Per non parlare della sorte dei giganti tech AliBaba e Tencent, piegati al potere politico con leggi, multe, arresti, e in alcuni casi con la violenza. Si veda l’esempio della sparizione del capitano di industria Jack Ma che, dopo aver aspramente criticato la leadership, era scomparso per tre mesi, per riapparire sulla scena ridotto a più miti consigli. Il patto implicito di quella che è facilmente definibile come una dittatura con il suo popolo è “crescita economica e stabilità, in cambio di consenso”. Tuttavia, le pesanti interferenze della politica nel business privato, con imprenditori terrorizzati di poter essere incarcerati non sono esattamente uno stimolo ad innovare, e non sono buon segno per la futura produttività di un Paese.
E la politica estera? Per decenni la leadership cinese ha seguito l’adagio di Deng Xiaoping secondo il quale la Cina “nasconde la sua forza e aspetta il momento giusto”. Il cambio di rotta della “diplomazia del lupo guerriero” abbracciata da Xi è il fondamento teorico alla base della Belt and Road Initiative (o Nuove Vie della Seta), della militarizzazione del Mar Cinese Meridionale, delle relazioni aggressive con gli Stati Uniti, dell’avvicinamento alla Russia, di una politica estera aggressiva e che vede nel dominio della Cina il fine ultimo.
Xi Jinping al prossimo convegno nazionale vedrà contro di sé personaggi di tutte e tre le principali correnti del PCC. Dai marxisti ortodossi (la sua corrente) che pensano sia andato troppo oltre; ai moderati eredi della tradizione di Deng, che controllano le burocrazie del Partito; alla meno influente, ma presente, area liberale. Queste insoddisfazioni non risiedono solamente nei palazzi del potere, ma si stanno espandendo nel pubblico. La reazione al Covid-19 ha probabilmente annullato l’amore per Xi di moltissimi cinesi, oltre a rivelare le insicurezze di un leader che vuole accentrare su di sé ogni decisione, invece di lasciare ai governatorati locali la discrezionalità necessaria a mettere in atto interventi adeguati a seconda dei luoghi.
E’ estremamente difficile ottenere dati affidabili, ma le stime di South China Morning Post parlano di seicento milioni di persone in Cina che vivono con appena $140 dollari al mese. Circa 4.4 milioni di piccole imprese hanno chiuso tra gennaio e novembre 2021, tre volte le nuove imprese nate nello stesso periodo. Molti funzionari governativi hanno visto il proprio stipendio dimezzarsi a seguito della crisi finanziaria.
Mentre gli apparati di sorveglianza sono talmente pervasivi che nessun cittadino osa protestare seriamente, i vertici politici sono sotto lo scacco della minaccia delle norme anticorruzione. Per questo il modo più probabile con cui Xi potrebbe essere fermato è quello legale: negare un terzo mandato al prossimo Congresso del PCC.