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Il dollaro si apprezza. E il problema è tutto nostro. L’analisi di Pennisi

Non illudiamoci, come fanno alcuni, che un dollaro che acquista valore faccia bene alle nostre economie perché agevola l’export. Perdiamo molto di più con il deflusso di capitali verso gli Usa. Giuseppe Pennisi spiega perché

John Connally, segretario al Tesoro quando l’amministrazione americana decise di porre fine al sistema di Bretton Woods, aveva la fama di essere arrogante. Non con gli amici di vari decenni più giovani di lui. Lo incontravo spesso quando (allora vivevo a Washington) andavo con mia moglie a cena ad un ristorante giapponese vicino casa nostra in quel di North Cleveland Park. Notato che eravamo spesso allo stesso ristorante (ottima cucina, prezzi bassi) ci invitò un paio di volte al suo tavolo e pagò anche il conto.

Fu arrogantissimo invece alla riunione dei ministri dell’’Economia e Finanze di gran parte dei membri del Fondo Internazionale alle Smithsionan Istitutions, dove secondo Nixon sarebbe stato stipulato “il più grande accordo monetario della storia”. Sarà stato “grande” ma ebbe meno di 18 mesi di vita. A quella riunione, Connally disse agli altri partecipanti “il dollaro è la nostra moneta, ma il vostro problema”.

Si era nel 1971. Allora gli Stati Uniti producevano il 40% nel Pil, mondiale ed erano all’avanguardia della tecnologia in quasi tutto i campi. La “loro” moneta si reggeva dunque su gambe molto forti. Ora non arrivano a produrre il 25% del Pil mondiale e i bei tempi, anche recenti, della Silicon Valley sembrano molto lontani: durante la pandemia parte dell’industria americana è entrata in crisi perché non le arrivavano micro-chips non solo prodotti ma anche concepiti a Taiwan. Ciò nonostante, basta guardare all’andamento dei cambi nelle ultime settimane per toccare con mano che oggi come nel 1971 il dollaro è “la loro moneta” ed “il nostro problema”.

Non illudiamoci, come fanno alcuni, che un dollaro che si apprezza fa bene alle nostre economie perché agevola l’export. Perdiamo molto di più con il deflusso di capitali verso gli Usa nell’aspettativa di ulteriori rialzi del dollaro rispetto all’euro. In un saggio appena uscito di Maurice Obstfeld e Hoanan Zu si argomenta, con ricchezza di cifre (e di teoria economica) che il mondo è entrato in un ciclo del dollaro, accentuato dalla guerra in Europa orientale. L’altra moneta che prometteva di gareggiare con il dollaro, lo yen giapponese, almeno per l’area asiatica ed il bacino del Pacifico, è entrata in un lungo sonno come il Paese che la esprime. L’euro non decollerà sino a quando si reggerà su un mercato dei capitali frammentato, con differenze significative tra i rendimenti dei titoli emessi dai vari Tesori nazionali, e dove non si riesce neanche a completare la monca unione bancaria. Non parliamo neanche delle velleità del Renminbi cinese e del rublo russo di diventare internazionali.

Il Premio Nobel Paul Krugman esprime perplessità sul potere di attrazione del dollaro Usa nonostante la perdita di peso dell’economia americana nel contesto mondiale (e nonostante i gravi problemi politici e sociali degli Stati Uniti). Ritengo che i gravi problemi politici e soprattutto sociali degli Usa interessano poco a chi vuole investire in un mercato finanziario vasto e – a quel che si comprende – ben regolamentato. Un aspetto centrale per stimare quanto durerà il ciclo del dollaro. Una delle sue determinanti è che gli Usa abbondano di energia, mentre il potenziale competitore (l’euro) rischia lunghi inverni freddi che ritarderanno l’avvio del mercato unico dei capitali europeo.


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