Uno dei grandi scogli per il governo saranno le pensioni. Non solo la rivalutazione legata all’inflazione che galoppa, ma anche problemi strutturali che ci portiamo dietro e che si sono acuiti con i 20 anni di stagnazione. Giuseppe Pennisi fa tre proposte per rendere il sistema più equo e sostenibile
Oggi si vota. Chiunque vinca dovrà confrontarsi con una situazione economica estremamente complessa: alta inflazione e rischi sempre più evidenti di una seria, e non breve recessione, nonché di un contesto internazionale poco favorevole: alti tassi di interesse, mancanza dell’atteso “scudo della Banca centrale europea” per calmierare lo spread. Di tutto ciò parleremo quando si saprà chi esce vincitore da una campagna elettorale confusa e sgrammaticata.
Il primo problema che dovrà affrontare il nuovo governo è come impostare la legge di bilancio. Se ne avranno indicazioni dal prologo: come trattare le pensioni a fronte di un’inflazione che morde e restringe il potere d’acquisto delle famiglie, già colpito dalle spese energetiche. Il fenomeno avrà un impatto tangibile sui conti dello Stato anche per quanto riguarda la rivalutazione delle pensioni dal 1° gennaio 2023, per cui serviranno non meno di 8/10 miliardi.
Stando all’Ufficio Parlamentare di Bilancio, nel 2023 l’inflazione non scenderà sotto il 7%, dopo che in agosto il dato è salito fino all’8,4%, il massimo da quarant’anni a questa parte. Le pensioni verranno indicizzate in base all’andamento dell’inflazione 2022 e alle previsioni 2023. Nell’ipotesi di un’inflazione all’8%, la spesa pensionistica italiana crescerebbe di 8 miliardi. Un anticipo della prevista rivalutazione dell’assegno pensionistico sarà riconosciuta già con le competenze di ottobre (in pagamento da novembre) nella misura del 2,2% per chi ha reddito fino a 35mila euro, che si riduce con il salire del reddito in base agli scaglioni previdenziali. Un aumento dello 0,2% riguarderà in ogni caso tutti gli assegni (conguaglio della rivalutazione 2022). L’aumento anticipato sarà declinato secondo le seguenti linee:
- Circa 10 euro al mese per chi prende la pensione minima (524 euro);
- Circa 20 euro al mese per gli assegni intorno ai mille euro;
- 50 euro al mese per chi percepisce pensione superiore a cinque volte il minimo.
Come accennato, oltre l’anticipo di ottobre/novembre, dal 1° gennaio 2023 arriverà anche la quota aggiuntiva dovuta per la rivalutazione all’inflazione, in base all’indice definitivo che l’Istat comunicherà il prossimo novembre. L’aumento dello 0,2% sulla pensione da gennaio riguarda tutti, a prescindere dal reddito, ed è così calibrato sulle seguenti fasce:
- Fino a 4 volte il minimo; rivalutazione del 100% e dunque aumento dello 0,2%.
- Da 4 a 5 volte il minimo (da circa 2mila a 2500 euro al mese): perequazione al 90% e quindi aumento dello 0,18%.
- Oltre 5 volte il minimo (oltre i 2500 euro lordi mensili): rivalutazione al 75% e quindi aumento dello 0,15%.
I pensionati con un reddito fino a 35mila euro hanno titolo ad un ulteriore aumento del 2% (2,2% totale), calcolato sempre facendo riferimento alle medesime aliquote di perequazione. Coloro che hanno redditi da pensione più alti applicano la rivalutazione massima del 2% su 35.000 euro, con un conseguente aumento intorno ai 50 euro al mese.
Questa la normativa attuale, concepita in un contesto totalmente differente di quello ora in atto. Nel 1995, quando è stata legiferata la “riforma Dini”, si prevedeva che l’Italia avrebbe avuto un tasso di crescita a lungo termine dell’1,5%-2% in termini reali ed una bassa inflazione (il 2% l’anno come previsto dagli statuti Bce). In questo quadro, il «metodo contributivo» per il calcolo delle spettanze (agganciato a crescita reale) avrebbe portato a pensioni, inferiori a quelle «retributive» ma pur sempre dignitose. Già prima di eventi imprevisti e imprevedibili (come la pandemia e la guerra scatenata dalla Federazione Russa), nel 2019, l’Italia aveva ridotto il proprio Pil pro-capite rispetto a quello del 2000, era passata da un Pil pro-capite del 20% sopra la media di quelli dei Paesi dell’eurozona al 3% sotto, la cui crescita era di poche percentuali di un punto l’anno e la cui produttività era quasi stagnante. Ciò indica che i due eventi imprevisti ed imprevedibili hanno colto un Paese in grave affanno strutturale. E con un quadro molto diverso da quello in cui è stata concepita la riforma Dini, che, nonostante gli aggiustamenti apportati in questi 27 anni, resta l’architrave del sistema.
Vengono fatte le proposte più fantasiose. Ad esempio, per le pensioni che superano i 70.000 ricalcolarle con il «metodo contributivo», operazione non solo di dubbia legittimità costituzionale ma impossibile perché prima del 1996 le pubbliche amministrazione non versavano all’Inpdad (da decenni confluito nell’Inps) contributi individuali ma una somma complessiva per tutti i dipendenti. Spunta di nuovo il «contributo di solidarietà» già bocciato due volte dalla Corte Costituzionale. Si parla anche di un’”imposta sugli immigrati”, che sarebbe discriminatoria ove non razzista, oltre che illegittima.
Che suggerimento dare? Nell’immediato, per fare fronte alla perdita di valore delle pensione attingere agli stanziamenti del così detto «reddito di cittadinanza». Inoltre, come già scritto su questa testata, impostare sin da ora una riforma a lungo termine che preveda:
a) Una netta separazione contabile tra previdenza ed assistenza. Tra le storture in atto c’è quella gravissima delle “pensioni lunghe”. Dall’ultimo rapporto del centro studi Itinerari Previdenziali in base a vecchie leggi su varie tipologia di “pensioni baby”, ad oggi sono in pagamento 423.009 pensioni per il settore privato e 53.270 per il persone pubblico, la cui erogazione è iniziata prima del 1980 – ossia oltre quarantanni di pensionamento. Occorre chiedersi quanti di questo mezzo milioni di pensionati hanno continuato a lavorare fatturando (e se del caso, con partita Iva) e quanti hanno continuato a lavorare al nero, frodando l’erario. È difficile ipotizzare mezzo milione di panchine; se ci sono, sono invisibili. Dato che è arduo ipotizzare controlli efficaci da parte dell’ispettorato del lavoro su numeri così grandi, e che è ancora più difficile legiferare un blocco oltre un certo numero di anni alle baby pensioni, si dovrebbe stabilire quanto meno che dopo, diciamo, 20 anni, vengano classificate come supporto al reddito piuttosto che come previdenza. Ciò renderebbe i confronti internazionali sulla spesa pensionistica quanto meno più omogenei.
b) Altra stortura quella dei «silenti». Come più volte sostenuto su questa testata, prima di procedere ad una nuova riforma, l’Inps dovrebbe rendere noti i dati finanziari sui contributi versati senza dare luogo a prestazioni, da milioni di lavoratori, noti come «contributori silenti» (lavoratori deceduti senza diritto a pensione, lavoratori deceduti senza superstiti, stranieri rimpatriati con bassa contribuzione, lavoratori che hanno versato, ma che poi hanno dovuto/voluto scegliere l’economia sommersa senza avere raggiunto il diritto a prestazione, disoccupati di lunga durata che non riescono a maturare requisiti minimi, donne che hanno perso il lavoro senza avere diritto a pensione, prestazioni previdenziali non riscosse). È possibile che le somme siano tali da permettere di finanziare uno “zoccolo duro” per i giovani ed un bonus per le lavoratrici madri.
c) Infine, cosa succede con i bonus? Come verranno computati nel montante individuale che è il cardine del metodo contributi? Sono interrogativi molto delicati perché se si comincia a scardinare una parte del sistema, si apre la strada per scardinarlo tutto.
C’è un forte rischio di un gran guazzabuglio. Sarebbe più semplice adottare la proposta di legge presentata, nel lontano dicembre 2009, alla Camera da Cazzola ed altri ed al Senato da Treu ed altri: una base semplice, chiara e pulita per un sistema simile a uno sgabello a tre gambe: i) una finanziata dalla fiscalità generale ed eguale per tutti come pensione di vecchiaia (da riscuotere non prima dei 67 anni o di altra età determinata da criteri connessi all’aspettativa di vita); ii) una rigorosamente contributiva e “flessibile” (prima si va in pensione più piccolo è l’assegno); iii) una interamente privata (con l’impegno di non cambiare ogni due-tre anni l’imposizione tributaria).