Il summit tenutosi negli Stati Uniti con 14 Paesi insulari ha portato alla firma di una dichiarazione congiunta piuttosto vaga. Le isole del Pacifico vogliono sostanziose garanzie economiche per poter affrontare il cambiamento climatico, e giocano da una posizione di rinnovata importanza geopolitica
Si è concluso a Washington il summit che ha visto la Casa Bianca invitare nella capitale i leader di quattordici Paesi dell’Oceano Pacifico. L’incontro si è concluso con una dichiarazione di undici punti firmata da tutti i partecipanti, la quale afferma che “le Isole del Pacifico notano l’impegno degli Stati Uniti di ampliare e migliorare la cooperazione di sicurezza nella regione, in un panorama geopolitico sempre più complesso”. Un ottimo risultato per Washington che tenta di arginare l’espansionismo cinese, ma in realtà l’apparenza cela problemi di fondo abbastanza ingarbugliati.
Prima di questo summit, le Isole Salomone si erano rifiutate di siglare la dichiarazione congiunta, e avevano spinto anche le altre Isole a seguirle. La motivazione potrebbe essere comodamente identificata nell’avvicinamento della piccola Nazione alla Repubblica Popolare di questi ultimi tempi, ma la realtà è che gli Stati Uniti stanno sorvolando da troppo tempo sulla storia di abusi che caratterizza le loro relazioni con le Isole del Pacifico.
Durante gli anni della Guerra Fredda, Washington ha condotto decine di test nucleari nell’area, oltre a scaricare rifiuti radioattivi in quelle porzioni di oceano. Un rapporto delle Nazioni Unite nel 2012 aveva documentato come le Isole Marshall abbiano subito danni permanenti e irreversibili a causa dei sessantasette test nucleari condotti dal 1946 al 1958, oltre ad aver rilevato soglie di inquinamento nucleare molto superiori a Chernobyl e Fukushima.
Le Isole del Pacifico sostengono che queste violazioni richiedano di essere riconosciute e soprattutto ripagate. Il caso delle Isole Marshall è nuovamente significativo. Le relazioni bilaterali sono regolate tramite un Compact of Free Association, un trattato di cooperazione che scadrà nel 2023 e deve essere rinegoziato entro la fine di quest’anno. Le Isole Marshall insistono perché le riparazioni per gli esperimenti nucleari siano parte dei negoziati, ma gli Usa non hanno mai riconosciuto completamente il proprio ruolo nell’area. Come risultato, l’Isola ha sospeso i contatti per rinnovare la partnership di sicurezza portando la situazione di fatto ad un impasse che l’amministrazione Biden vorrebbe sciogliere.
Il vertice di questa settimana non ha fatto nulla per invertire questa rotta. Certo, il decimo punto della dichiarazione congiunta fa riferimento alle “eredità del conflitto e alla promozione della non proliferazione nucleare. (…) Le cicatrici della Seconda Guerra rimangono nel Pacifico. (…) Gli Stati Uniti rinnovano l’impegno per affrontare i problemi ambientali e di salute pubblica e di benessere della Repubblica delle Isole Marshall”. Ma in fin dei conti questa appare come una dichiarazione finemente elaborata con scelte linguistiche che evitassero qualunque riconoscimento delle responsabilità americane.
“Gli Stati Uniti si impegnano a rimuovere e smaltire in modo sicuro gli ordigni inesplosi e riconoscono le preoccupazioni degli Stati insulari del Pacifico per quanto riguarda altri resti della Seconda Guerra Mondiale”. Tuttavia, la dichiarazione non parla di riparazioni finanziarie, mentre l’ulteriore punto spinoso è che nell’ambito del cosiddetto accordo Aukus, gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e l’Australia pianificano di aumentare il numero di sottomarini nucleari presenti nell’Oceano Pacifico, in contraddizione con il regime di non-proliferazione previsto negli accordi con le Isole del Pacifico.
Queste Isole, poi, hanno urgente bisogno di supporto economico, non tanto e non solo per lenire le ferite dei test nucleari, ma per contrastare gli effetti del cambiamento climatico, dato che l’innalzamento del livello del mare sta letteralmente ingoiando alcune isole. Durante il summit, la presidenza Biden ha annunciato un pacchetto di aiuti da ottocentodieci milioni di dollari, una stima che è stata reputata insufficiente da tre Paesi insulari.
Ecco perché le Isole del Pacifico hanno accolto Pechino come un potenziale interlocutore amichevole con cui fare accordi securitari e di politica estera. Questo incontro ha mostrato come le Nazioni dell’area sono ben coscienti della propria rinnovata importanza geopolitica e giocano su questa, senza lasciarsi comprare facilmente da offerte simboliche. In questo modo cercano di mettere l’uno contro l’altro i propri partner, Cina e Stati Uniti, in modo da trarne il massimo vantaggio. Il summit di Washington è solo l’inizio di una partita che ora dovrà vedere la reazione cinese come prossima mossa.