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I peccati ambientali dei Paesi più poveri. L’opinione di Zitelmann

Di Rainer Zitelmann

Mentre gli attivisti danno la colpa del cambiamento climatico al capitalismo, la classifica della tutela dell’ambiente dell’Università di Yale rileva che i Paesi con un alto grado di libertà economica hanno risultati migliori di quelli economicamente non liberi. Il commento di Rainer Zitelmann, autore di “La forza del capitalismo. Un viaggio nella storia recente di cinque continenti” (IBL Libri, 2020)

Ai colloqui sul clima della Cop27 in Egitto, i Paesi più poveri chiedono ai Paesi ricchi un elevato risarcimento, perché, sostengono, sono i Paesi ricchi ad avere la maggiore responsabilità del cambiamento climatico. I media e gli “attivisti del clima” dipingono un quadro in bianco e nero; con i Paesi poveri innocenti (“vittime”) e i Paesi ricchi colpevoli. Ma la questione non è affatto così semplice.

Naturalmente, in termini assoluti, gli Stati Uniti e gli altri Paesi sviluppati emettono più CO2 dei Paesi africani in via di sviluppo. Ma l’Environmental Performance Index (EPI) dell’Università di Yale, che valuta regolarmente i Paesi in base alle loro “prestazioni ambientali”, assegna le peggiori valutazioni sul cambiamento climatico ai Paesi poveri. L’indice EPI 2020 di Yale includeva un capitolo separato (Capitolo 11) che valutava i Paesi in base alle loro prestazioni in materia di cambiamenti climatici: “I risultati dell’EPI possono aiutare a identificare quali Paesi sono sulla buona strada per la decarbonizzazione e quali devono accelerare i progressi verso un futuro sostenibile”.

Il risultato è il seguente: le migliori valutazioni sono andate a Paesi come Danimarca, Regno Unito, Romania, Francia, Svizzera, Norvegia, Lussemburgo, Svezia e Finlandia. “L’Africa sub-sahariana e l’Asia meridionale presentano le prestazioni regionali medie più basse, con i Paesi di queste regioni che hanno ottenuto 16 dei 20 punteggi più bassi”.

La gamma di indicatori dell’EPI comprende “l’intensità delle emissioni di gas serra”, ossia le emissioni di CO2 per unità di prodotto interno lordo, il tasso di crescita delle emissioni di CO2 e le emissioni pro capite.

Molti Paesi occidentali sono riusciti da tempo a disaccoppiare le emissioni di CO2 dalla crescita del prodotto interno lordo, ma non si può dire lo stesso di molti Paesi africani, la maggior parte dei quali non è economicamente libera. Mentre gli attivisti danno la colpa del cambiamento climatico al capitalismo, la classifica della tutela dell’ambiente dell’Università di Yale rileva che i Paesi con un alto grado di libertà economica hanno risultati migliori di quelli economicamente non liberi.

Il motivo per cui le emissioni sono inferiori in termini assoluti nei Paesi in via di sviluppo (soprattutto in Africa) è semplicemente il loro scarso sviluppo economico, cioè la loro povertà. Questi Paesi non sono riusciti a garantire un tenore di vita decente alla loro popolazione e le loro economie non sono libere. Questa è la spiegazione sia della loro povertà sia delle loro – in termini assoluti – minori emissioni di CO2.

E questi Paesi ora chiedono soldi ai Paesi sviluppati per combattere il cambiamento climatico. Tuttavia, come hanno dimostrato innumerevoli programmi di aiuto allo sviluppo, le sovvenzioni dirette non hanno funzionato nella lotta contro la povertà, perché gran parte degli aiuti finisce per essere incanalata nei luoghi sbagliati, ovvero verso i governi corrotti di questi Paesi. L’opinione che la corruzione sia particolarmente diffusa nei Paesi capitalisti è sbagliata, come dimostra il confronto tra l’Indice di percezione della corruzione (CPI) di Transparency International e l’Indice di libertà economica della Heritage Foundation. I Paesi con i più bassi livelli di corruzione sono gli stessi che hanno tra i più alti livelli di libertà economica. Dei 10 Paesi con il minor livello di corruzione, tutti, senza una sola eccezione, rientrano nelle categorie di Paese economicamente “libero” o “prevalentemente libero” dell’Indice di libertà economica. Al contrario, i Paesi che si posizionano agli ultimi dieci posti nell’indice di corruzione sono anche Paesi economicamente non liberi.

Dambisa Moyo è nata in Zambia, ha studiato a Harvard e ha conseguito il dottorato a Oxford. Nel suo libro “La carità che uccide” individua negli aiuti allo sviluppo una delle principali cause di arretratezza del continente. Negli ultimi 50 anni, ha scritto Moyo nel 2009, più di mille miliardi di dollari in aiuti allo sviluppo sono stati trasferiti dai Paesi ricchi all’Africa. “Ma oltre 1.000 miliardi di dollari di aiuti allo sviluppo negli ultimi decenni hanno migliorato il benessere degli africani? No. In realtà, in tutto il mondo i beneficiari di questi aiuti stanno peggio, molto peggio. Gli aiuti hanno contribuito a rendere i poveri più poveri e la crescita più lenta… L’idea che gli aiuti possano alleviare la povertà in maniera sistemica, e che lo abbiano fatto, è un mito. Milioni di persone in Africa sono oggi più povere grazie agli aiuti; la miseria e la povertà non sono finite, ma sono aumentate”. Moyo cita uno studio della Banca Mondiale secondo cui oltre l’85% degli aiuti è stato utilizzato per scopi diversi da quelli originariamente previsti, spesso dirottati verso progetti improduttivi.

Non sarà diverso se miliardi di dollari verranno trasferiti dai Paesi ricchi a quelli poveri per mitigare gli impatti del cambiamento climatico. Nella lotta contro il cambiamento climatico, non saranno gli aiuti allo sviluppo – e certamente non l’abolizione del capitalismo – a migliorare la “salute” del Pianeta.


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