In primavera 2023 si voterà e quindi, in attesa di rivendicazioni credibili, resta aperta la ricerca delle menti. L’analisi di Stefano Dambruoso, magistrato ed esperto di terrorismo internazionale, e Francesco Conti, ricercatore, Master’s Degree in Terrorism, Security and Society al King’s College London
L’attentato di domenica scorsa a Istanbul, in Turchia, che ha causato otto civili morti e più di 80 feriti, ha riacceso l’attenzione europea sulla minaccia terroristica. L’immediata reazione dell’apparato antiterrorismo turco ha portato alla cattura, in meno di 24 ore, della presunta attentatrice (che peraltro avrebbe già confessato la sua colpevolezza) e di decine di facilitatori del Pkk (Partito del lavoratori del Kurdistan). Ma molti analisti hanno prospettato uno scenario possibilmente diverso, poiché la lotta al terrorismo in Turchia ha più di una volta disvelato connessioni con la politica governativa sia interna che internazionale.
Il Pkk ha già nel recente passato commesso azioni terroristiche per richiamare l’attenzione internazionale sulla causa politica del popolo curdo e per questo è inserito nella lista delle organizzazioni terroristiche dell’Unione europea. Il gruppo curdo ha anche utilizzato in passato il territorio italiano per finanziare le proprie attività e, secondo Europol, sarebbe un importante attore criminale coinvolto nel traffico internazionale di droga. Ciò nonostante, il modus operandi delle azioni terroristiche del Pkk non sembra essere riscontrabile nell’attentato dei giorni scorsi. Negli anni passati il Pkk ha utilizzato ordigni esplosivi per colpire nella città di Istanbul causando decine di vittime civili, sia turche che straniere, ma i bersagli principali sono stati sempre legati al governo turco. Basti ricordare in tal senso attentati come quello del giugno 2016 contro un autobus che trasportava appartenenti alle forze dell’ordine nei pressi di una stazione di polizia o quello del dicembre 2016 che ha preso di mira la polizia in assetto antisommossa fuori dalla Vodafone Arena durante una partita di calcio. Ma anche attentati più recenti, come quello di Iskenderun dell’ottobre 2020 o quello di Bursa dell’aprile di quest’anno, sono sempre stati diretti contro la polizia turca. Inoltre queste operazioni terroristiche sono state rivendicate dal Pkk o da organizzazioni affiliate, giustificandole perché inserite nella lotta del popolo curdo contro l’oppressione del governo turco. L’attentato della scorsa settimana, invece, è stato posto in essere in un’area turistica della città di Istanbul, senza apparente connessione con obiettivi politici o militari e a oggi non è stato rivendicato dagli organi propagandistici della militanza armata curda.
Da un punto di vista politico, gli attentati di matrice curda sono stati in passato utilizzati dal governo di Recep Tayyip Erdogan per rafforzare le misure repressive nei confronti dell’attivismo curdo e ottenere consenso politico, spesso in vista di elezioni (come avvenuto già nel 2015 quando il partito di Erdogan riuscì a vincere anche grazie a una campagna che proponeva il pugno di ferro nei confronti della minaccia terroristica, non solo dello Stato islamico, ma anche, e soprattutto, dell’estremismo curdo). Tali attentati hanno provocato operazioni antiterrorismo turche, anche extraterritoriali, come in Siria e Iraq, contro leader, roccaforti e basi logistiche dei miliziani curdi. L’operazione più recente, iniziata nell’aprile di quest’anno, ha visto l’utilizzo congiunto di artiglieria, forze aree e infiltrazioni delle forze speciali turche. Eppure le milizie curde, nello specifico le Ypg (Unità di protezione popolare) poi convogliate nelle Sdf (Forze democratiche siriane), sono state fondamentali nella lotta allo Stato islamico in Siria. Milizie che si sono rivelate partners affidabili dal punto di vista militare e hanno infatti operato in stretta collaborazione con le forze speciali occidentali, soprattutto americane. Inoltre, la loro cooperazione è stata molto importante per gli attacchi aerei sempre contro l’organizzazione terroristica jihadista. Nella fase post-califfato territoriale, le milizie curde sono state delegate invece a svolgere il significativo compito di custodi di campi di detenzione ove sono raccolti decine di migliaia di radicalizzati che si erano uniti allo Stato islamico e rimangono quindi, ancora oggi, una fondamentale risorsa per i Paesi occidentali nella lotta contro lo Stato islamico.
Fra questi detenuti vi era anche il marocchino con cittadinanza italiana, Samir Bougana, foreign fighter catturato proprio dalle forze curde nel settembre 2018. Originario di Brescia, è stato poi rimpatriato nell’estate del 2019 grazie a un’operazione congiunta della Polizia di Stato e dell’Aise, con il duplice scopo di essere processato da un tribunale italiano e di poter essere utilizzato più facilmente quale fonte informativa su altri esponenti dello Stato islamico legati al nostro Paese. Bougana, già condannato per associazione con finalità di terrorismo (articolo 270 bis del Codice penale) è stato arrestato la scorsa settimana per ulteriori reati che avrebbe commesso nel periodo di militanza nello Stato islamico.
Nei campi di prigionia gestiti dai curdi vi sono al momento un numero ancora imprecisato di persone, fra cui moltissime donne e minori, che possono rappresentare un imprevedibile rischio securitario nel medio-lungo periodo. Minori che sono nati e hanno conosciuto solo la realtà dei campi di detenzione allevati secondo le regole dell’islamismo più stretto. In questi campi detentivi sono comuni gli attacchi contro le guardie carcerarie curde, spesso con armi (da fuoco o anche bianche) comunque fatte arrivare clandestinamente dall’esterno. Nel gennaio di quest’anno, inoltre, lo Stato islamico ha attuato la sua più importante operazione militare dalla caduta di Baghouz nel marzo 2019, attaccando una prigione gestita dalle forze di sicurezza curde nel Nord-Est della Siria, utilizzando centinaia di miliziani, autobombe suicide e coordinando l’attacco in sinergia con terroristi dall’interno dei campi, che avevano organizzato una simultanea rivolta dei jihadisti detenuti. Nonostante lo Stato islamico non sia riuscito a realizzare il proprio obiettivo di prendere il controllo della prigione, l’attacco terroristico è comunque riuscito a causare centinaia di perdite fra le forze curde e ha consentito la fuga di molteplici di jihadisti, che sono andati a rafforzare le cellule presenti in Turchia, Siria e Iraq. Con il parziale disimpegno americano in Siria deciso durante la presidenza Trump, le milizie curde hanno avviato rapporti di cooperazione con Mosca, che, come Washington, mantiene un contingente militare in Siria. La Turchia e la Russia sono però rivali nell’area come nel Caucaso ove è in corso il conflitto in Nagorno-Karabakh. Con lo scoppio della guerra in Ucraina la conflittualità fra la Turchia e la Russia si è riproposta, con la prima che ha inviato i suoi famigerati droni Bayraktar TB2 alle forze armate di Kiev, gli stessi usati con successo in altri teatri, comprese le operazioni antiterrorismo contro il Pkk nell’Iraq del Nord. Non sembra pertanto casuale il fatto che la Russia sia uno dei pochi Paesi che non classifica il Pkk come un’organizzazione terroristica. Tanto per dire che nel nebuloso contesto securitario dell’ex impero ottomano gli analisti fanno osservare che non si può escludere lo Stato Islamico fra i possibili autori dell’attentato.
Lo Stato Islamico ha infatti preso di mira la più importante città turca in diverse occasioni. Nel giugno 2016 una cellula di tre terroristi di origine cecena realizzò un attentato contro l’aeroporto Ataturk, uccidendo 45 persone, fra civili e addetti alla sicurezza portuale. A causa delle sempre più stringenti misure antiterrorismo presenti negli aeroporti, i terroristi decisero semplicemente di attaccare prima dell’ingresso terminal. Durante il capodanno 2017, un terrorista jihadista di origine uzbeka uccise 39 persone sparando all’impazzata contro gli avventori di un locale, con un attacco che ha ricordato il modus operandi usato per colpire i locali e i ristoranti parigini durante il concomitante attentato al Bataclan del novembre 2015. Inoltre, un’operazione suicida realizzata dal gruppo jihadista nel 2016 colpì a poche centinaia di metri di distanza dal luogo scelto per l’attentato di domenica, scegliendo sempre luoghi frequentati da civili e turisti.
La Turchia è stata colpita dall’Isis per aver chiuso la pipeline ideata dallo Stato islamico, che aveva consentito a migliaia di jihadisti (inclusi centinaia di italiani) di raggiungere le terre del califfato, compiendo la hijra (migrazione) attraversando il confine turco-siriano durante l’apogeo dell’organizzazione terroristica. Tale struttura organizzativa aveva il suo perno proprio all’interno della Turchia, dove erano presenti facilitatori e case sicure dello Stato islamico, che fornivano la necessaria protezione ed il supporto logistico a coloro che erano in procinto di raggiungere il califfato di Abu Bakr al-Baghdadi. Non può pertanto ritenersi disconnessa l’analisi di chi ha ricordato che in primavera 2023 si voterà in Turchia e quindi in attesa di rivendicazioni credibili resta aperta la ricerca degli ideatori dell’attentato di via Istiklal.