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Vi racconto la nuova era del reddito di cittadinanza. Scrive l’avv. Fava

Risulta oggi più che mai necessario tracciare una netta linea di demarcazione tra le misure di contrasto alla povertà, da un lato, e gli strumenti di supporto alla ricollocazione sul mercato del lavoro, dall’altro. Ed è questa la strada che il governo auspicabilmente sembra voler intraprendere dal 2024. Il commento dell’avvocato Gabriele Fava

Approvato nella seduta del 21 novembre scorso dal Consiglio dei ministri, il disegno di legge recante il bilancio di previsione dello Stato per il 2023 contempla alcune importanti novità in materia di Reddito di cittadinanza, sussidio che, attualmente, prevede un dispendio di risorse pubbliche pari a circa 8 miliardi di euro all’anno.

Senza considerare i raggiri connessi all’utilizzo di tale misura scoperti di recente dalla Guardia di Finanza, per un valore complessivo pari a 288 milioni di euro per il periodo dal 1° gennaio 2021 al 31 maggio 2022. Ecco perché il neo governo ha inteso restringere la platea dei soggetti legittimati ad accedervi, limitando il sussidio a coloro che risultino realmente indigenti ed impossibilitati ad accedere al mercato del lavoro.

Non a caso, lo stesso ministero dell’Economia e delle Finanze ha parlato di “manutenzione straordinaria” della misura, introducendo alcuni correttivi per il 2023 sino ad arrivare alla sua abolizione a partire dal 2024. Dunque – dal 1° gennaio 2023 – laddove il disegno di legge approvato dal governo dovesse passare indenne il vaglio del Parlamento – il reddito di cittadinanza sarà riconosciuto ai soggetti di età compresa tra i 18 e i 59 anni abili al lavoro ma che non abbiano nel nucleo familiare disabili, minori o persone a carico con almeno 60 anni d’età, unicamente nel limite massimo di 7/8 mensilità (in luogo delle attuali 18 mensilità rinnovabili).

Inoltre, i percettori del reddito saranno tenuti a partecipare – per un arco temporale pari ad almeno sei mesi – a un corso di formazione o riqualificazione professionale, a pena di decadenza dal beneficio. Analogamente, il sussidio verrà meno in caso di rifiuto della prima offerta di lavoro congrua, in luogo delle due possibilità allo stato attuale previste. Dal 1° gennaio 2024, invece, non sarà più possibile accedere a tale misura, la quale sarà rimpiazzata con un diverso sussidio, attualmente allo studio degli addetti ai lavori.

Riforma, va detto, auspicata dai più – stante il sostanziale fallimento del reddito sul fronte delle politiche attive del lavoro – e la quale coglie nel segno laddove si preoccupa di convertire la misura in esame da mero sussidio economico fine a sé stesso in uno strumento di effettivo supporto alla ricollocazione sul mercato del lavoro in grado di garantire specifichi percorsi di formazione. La chiave del successo di interventi di tale portata, infatti, deve essere ricercata nella concreta possibilità – da parte del beneficiario – di acquisire quella formazione necessaria a (re)inserirsi nel mercato e a garantirgli l’acquisizione di competenze spendibili nel lungo periodo.

Solo in tal modo, il soggetto potrà uscire definitivamente dalla situazione di stallo in cui si è venuto a trovare. Ecco perché risulta oggi più che mai necessario tracciare una netta linea di demarcazione tra le misure di contrasto alla povertà, da un lato, e gli strumenti di supporto alla ricollocazione sul mercato del lavoro, dall’altro lato. Ed è questa la strada che il governo – auspicabilmente – sembra voler intraprendere dal 2024, come già le modifiche introdotte al reddito per il 2023 sembrano preannunciare.

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