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Dal tragico appello di Moroni al caso Cav. il ruolo-chiave di Re Giorgio per ridurre egemonia toghe

“Egregio Signor Presidente, ho deciso di indirizzare a Lei brevi considerazioni, prima di lasciare il mio seggio alla Camera, compiendo l’atto conclusivo di por fine alla mia vita.Quando la parola è flebile, non resta che il gesto. Mi auguro, soprattutto, che possa evitare che altri, nelle mie stesse condizioni, abbiano a patire le sofferenze morali, che ho vissuto in queste settimane, ed evitare processi sommari, in piazza o nelle tv, che trasformano le informazioni di garanzia in una preventiva sentenza di condanna”.

Questo drammatico appello a Napolitano fu rivolto da Sergio Moroni, 45 anni, deputato craxiano, indagato da Di Pietro per finanziamento illecito al Psi (“ho ricevuto, sbagliando, contributi e sostegni per il partito, mai e poi mai ho pattuito tangenti”) prima di spararsi un colpo di fucile in bocca, nel garage della sua casa di Brescia.
Quel suicidio, il 2 settembre del 1992, scosse Napolitano, che il Pds aveva designato sullo scranno più alto di Montecitorio, bruciando, come nell’aprile scorso, le aspirazioni di Rodotà. Ma, così come i suicidi di Cagliari e Gardini, e l’infarto che stroncò Balzamo, il cassiere del Psi, quelle tragedie indussero la classe politica, allora non incalzata da Grillo, a operare solo cambiamenti parziali, e insufficienti, sul nodo del finanziamento dei partiti e del pletorico, allora come oggi, sottogoverno.
E, infatti, celebrati i funerali dei dirigenti e dei vecchi partiti, il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica non portò alla fine dei vergognosi casi di ruberie, diventati ancora più frequenti. E finalizzate ad arricchire personaggi squallidi, che hanno svuotato le stracolme casse dei partiti: i Lusi, i Fiorito, i Belsito.

E né NapolitanoProdiBerlusconi sono riusciti a contenere le invasioni e le “missioni improprie” dei “magistrati militanti” nel campo della politica e a tradurre in comportamenti concreti la divisione dei poteri, non impegnandosi, come avrebbero dovuto, per contenere il trasferimento alle toghe di un complesso di funzioni e di attività che, in teoria, nulla avrebbero a che fare con le specifiche funzioni della magistratura.
È stato, per uno di quei paradossi non rari in politica, don Luciano Violante, che negli anni 90 era ritenuto il leader del “partito dei giudici”, a teorizzare una netta inversione di tendenza, bocciando l’eccessivo interventismo delle toghe, autoproclamatesi “controllori di legalità”. Tutto sbagliato, ha detto l’ex Presidente della Camera, bacchettando i vari Di Pietro, Ingroia, de Magistris: “il magistrato inquirente non ha il potere di controllare la legalità. Questo è compito della politica, della pubblica amministrazione, della Polizia. Non è compito del magistrato cercare il reato. Egli deve avere, sul suo tavolo, una “notizia di reato”, non un generico e fumoso sospetto, ma la notizia, non inattendibile, che un fatto, espressamente previsto dalla legge come reato, sia stato commesso”.

E, a proposito dei paradossi, a pronunciarsi contro l’esondazione, nelle proprie funzioni, dei magistrati, con il “controllo di legalità”, è, oggi, proprio quel Luciano Violante che, con la toga, nei primi anni 70, mise sotto inchiesta Edgardo Sogno, che fu un eroico combattente contro il fascismo e un intransigente anticomunista. Sogno fu vittima di uno dei primi “teoremi” giudiziari e, accusato di aver ideato un “golpetto bianco”, senza prove, rimase rinchiuso 2 mesi a Regina Coeli, prima di essere prosciolto. E il dc Donat Cattin accusò don Luciano di aver rinchiuso in cella, con il sistema del sospetto, un uomo, che si era battuto con coraggio per liberare l’Italia.
E, 40 anni dopo l’arresto di Sogno e 21 dopo il suicidio di Moroni, la parola e le decisioni, sulla clemenza a Berlusconi e sulla chiusura di una guerra civile permanente tra toghe e politica, torna a Giorgio Napolitano, già autorevole dirigente del Pci filosovietico di Togliatti.

Potrebbe, il Capo dello Stato, dimostrare di aver riflettuto su quel drammatico appello, rivolto da Sergio Moroni al nostro Paese, a costruire il futuro, archiviando la propensione allo sciacallaggio e un “clima da “pogrom” “nei confronti di una classe politica, i cui limiti sono noti, ma che pure ha fatto dell’Italia uno dei Paesi più liberi”.



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