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Perché ho partecipato al manifesto lauburista per il Pd. Scrive Ceccanti

Ieri a Roma è stata presentata la piattaforma laburista in vista del congresso del Pd. Sul palco si sono alternati, tra gli altri, Bentivogli, Gori, Ichino, Morando, Nannicini, Petruccioli. Il costituzionalista Stefano Ceccanti, già parlamentare Pd, spiega il senso istituzionale della proposta

Il pregio del documento www.laburisti.it, come è emerso ieri anche dalla discussione pubblica del testo, è di far planare sul merito un dibattito che altrimenti oscilla tra due estremi: da un lato vari posizionamenti tattici (chi sta con chi) e dall’altro un dibattito un po’ surriscaldato sul Manifesto dei valori, che può ovviamente essere solo aggiornato e non certo azzerato. Infatti solo impropriamente, solo in senso politico di invito a un dibattito spregiudicato si può parlare di “fase costituente”, essendo evidente che un potere costituito non avrebbe la legittimità, senza alcun mandato popolare, di autodefinirsi davvero potere costituente. Su questa questione bisognerà tornare puntualmente nei prossimi giorni.

Ciò detto intervengo solo sugli aspetti del documento relativi alle istituzioni.
È di moda estremizzare spesso la distinzione tra rappresentanza e governabilità, per poi sostenere la tesi semplicistica che ormai occorrerebbe occuparsi solo della prima.
Ora la distinzione non va forzata perché essa è nata nei contesti in cui il Governo era ancora l’esecutivo del re (“al Re solo appartiene il potere esecutivo”, recitava lo Statuto Albertino) e prima le forze liberali e poi quelle popolari potevano solo aspirare la rappresentanza. Cambiando i rapporti di forza è emersa l’esigenza che i governi fossero anch’essi rappresentativi, ovvero che il voto degli elettori per le assemblee parlamentari avesse delle conseguenze prevedibili anche sui governi. Questo dato è emerso più lentamente in Italia nella cultura della sinistra perché le vicende internazionali essa, nella sua componente più grande, poteva aspirare solo alla rappresentanza.
D’altronde sarebbe ben strano se le forze riformiste che si affidano di più all’intervento della politica sostenessero istituzioni deboli: ci sarebbe una contraddizione in termini.

Il punto comunque, anche a voler mantenere la distinzione senza esasperarla, è che sul piano nazionale la questione della governabilità non è per niente risolta: i Governi italiani e i loro Presidenti del Consiglio appaiono come un vaso di coccio in mezzo tra gli altri Governi europei (di norma chi siede al Consiglio europeo col Presidente italiano lo fa almeno per una legislatura e se ne vede quindi arrivare da Roma almeno tre diversi) e i Presidenti di Regione nonché i sindaci delle aree urbane (che a causa delle regole stringenti durano per una legislatura). Questo poi ha dei riflessi anche su altre questioni di cui si parla, come l’autonomia differenziata, che ben difficilmente possono essere risolti a Costituzione invariata: come si fa a potenziare in modo razionale l’asimmetria trattando con Governi nazionali deboli e senza una sede di cooperazione con dignità costituzionale, visto che il Senato non è riformato e la Conferenza Stato-Regioni ha solo un fondamento legislativo?

Rinvio per i dettagli concreti delle proposte al testo del documento. Il punto è comunque questo: per un partito a vocazione maggioritaria, e ancor più per un partito di centrosinistra che affida compiti alti alla politica, gli assetti istituzionali non sono indifferenti. Alcuni più di altri incentivano il suo ruolo. Ora non c’è dubbio che l’obiettivo debbano essere governi nazionali di legislatura, attraverso opportune leggi elettorali che conducano a una legittimazione diretta degli stessi, combinati con incentivi relativi alla forma di governo che servano come deterrenti contro le crisi.

L’esperienza ha dimostrato che leggi elettorali che conducano a una legittimazione diretta degli esecutivi, in cui il cittadino sia arbitro del Governo, per rifarsi alla ben nota indicazione di priorità di Roberto Ruffilli, sono elementi necessari anche se non sufficienti. Non sufficienti perché il problema è tutelare la stabilità dopo il voto, ma comunque necessari perché per la debolezza del nostro sistema dei partiti, in assenza di un verdetto elettorale chiaro, i partiti non sono in grado di stipulare patti di legislatura post-elettorali come accade in altri Paesi. L’alternativa alla legittimazione diretta sono Governi di derivazione presidenziale, tecnici o di grande coalizione, in cui si rischiano di perdere le differenze tra le forze politiche e che mal si prestano a imputare precise responsabilità da parte degli elettori.

Scegliere una logica piuttosto di un’altra è decisivo per un grande partito che è chiamato a fare politica, non a commentarla. Per questo quando si sente dire che bisognerebbe essere agnostici tra un sistema o un altro perché gli assetti futuri del sistema dei partiti sarebbero imprevedibili si sta invece declinando una responsabilità che va invece esercitata. Non caso la coalizione dell’Ulivo aveva dedicato alle istituzioni le sue prime tesi, di cui la numero 1 recitava come titolo “Uno Stato che funziona: forma di governo ed elezioni” e affermava poi nel testo “Dai partiti del passato che interferivano con la vita delle istituzioni si deve passare, anche attraverso nuove regole, a partiti programmatici che si impegnano a perseguire obiettivi di legislatura e che ne rispondono con un preciso mandato politico davanti ai cittadini-arbitri.”

Al di là delle concrete traduzioni pratiche, questi restano principi tuttora validi per la nostra azione politica e per le nostre proposte istituzionali. Del resto non è un caso se il Labour sia riuscito nell’immediato secondo dopoguerra, sulla base di un’azione di governo di legislatura, a creare un modello pionieristico di welfare in Europa. Non ce l’avrebbe fatta se zavorrato dall’instabilità, che è spesso dovuta anche a regole inadeguate.



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