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Un Generale a Palazzo Chigi. Perché è una buona notizia. Scrive Butticé

L’ex comandante generale della Guardia di Finanza, Giorgio Toschi, è il nuovo consigliere per i Rapporti istituzionali e la sicurezza, con particolare riferimento ai profili economico-finanziari, del vicepremier Antonio Tajani. Un ulteriore biglietto da visita a testimonianza dell’atlantismo e dell’europeismo costruttivamente critico del governo di destra-centro. Il commento del generale della Guardia di Finanza in congedo Alessandro Butticé

Il presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha dimostrato sin dall’inizio del suo mandato di non sottovalutare due grandi priorità che il suo governo deve affrontare. Da un lato una delicatissima situazione internazionale, e una relazione potenzialmente molto conflittuale con l’Ue. E ha quindi fortemente voluto al suo fianco un ministro degli Affari Esterei e della Cooperazione internazionale che è sicuramente un fuori classe nella materia, Antonio Tajani. Che è affiancato da un ministro per gli Affari europei, le politiche di coesione e il Pnrr stimato e molto ben collegato a Bruxelles, come Raffaele Fitto.

Dall’altro quella di dover fare fronte ad un’emergenza anch’essa senza precedenti e possibilità di ritardo nell’affrontarla. Quella della giustizia. Non solo per le pressanti richieste di riforma che provengono da Bruxelles, ma anche e soprattutto per la cloaca scoperchiata dall’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Luca Palamara. E ha quindi voluto come ministro della Giustizia quello che a mio avviso è uno dei migliori ministri che l’Italia abbia mai avuto, Carlo Nordio, magistrato colto, capace e davvero indipendente. Perché la sua indipendenza l’ha provata soprattutto rinunciando a concorrere per incarichi dirigenziali. Non ha infatti terminato la carriera come Procuratore, ma solo come aggiunto. E dopo aver letto “Il Sistema”, di Luca Palamara e Alessandro Sallusti, chiunque può capire come quelle nomine vengono fatte, attraverso i giochi non sempre meritocratici delle correnti. Alle quali Nordio ha sempre rifiutato di appartenere. Preferendo continuare a dire e pubblicare le sue dotte, e per me assolutamente condivisibili, proposte per una riforma liberale, garantista, e all’insegna dell’efficacia e della certezza della pena, della giustizia. Spesso contro il main stream della cosiddetta “cultura della giurisdizione”.

Ma della macchina della giustizia non fa parte solo quella penale, o civile. Ma anche, e soprattutto, per la vita del governo, quella amministrativa. Consiglio di Stato, Tar, Corte dei Conti. Che alla funzione giudicante accompagnano quella di fornire la crema dei grands commis ai diversi governi.

Nel libro “Io sono il potere” (sottotitolo, “Confessioni di un capo di gabinetto”) l’anonimo ma brillante autore descrive i meccanismi del deep state italiano. Con testimonianze di chi conosce alla perfezione i meccanismi della macchina amministrativa e ministeriale. “Noi capi di gabinetto non siamo una classe. Siamo un clero. Una cinquantina di persone che tengono in piedi l’Italia, muovendone i fili dietro le quinte. (…) Chierici di un sapere iniziatico che non è solo dottrina, ma soprattutto prassi. Che non s’insegna alla Bocconi né a Harvard. Che non si codifica nei manuali. Che si trasmette come un flusso osmotico nei nostri santuari: Tar, Consiglio di Stato, Corte dei conti, Avvocatura dello Stato. Da dove andiamo e veniamo, facendo la spola con i ministeri. Perché capi di gabinetto un po’ si nasce e un po’ si diventa. La legittimazione del nostro potere non sono il sangue, i voti, i ricatti, il servilismo. È l’autorevolezza”.

E l’attuale governo di destra-centro ha sinora dato diverse dimostrazioni di non ignorare la lezione ricevuta da questo saggio che tutti dovrebbero leggere. Per capire il funzionamento della macchina dello Stato. Spesso indipendentemente dalla stessa politica.

Lo ha dimostrato, ad esempio, affiancando a magistrati, che sono tuttavia in numero ridotto rispetto al passato, anche a causa dei limiti alla loro messa fuori ruolo introdotti dall’ex ministra Marta Cartabia, capi di gabinetto e consiglieri ministeriali di altissimo profilo e provenienti da esperienze diverse dalla giurisdizione. Molti di loro dotati di quella indiscussa autorevolezza che sola può legittimare l’attività di governo.

L’ultima prova è stata data ieri, con la firma da parte del presidente Meloni, del decreto di nomina a consigliere per i rapporti istituzionali e tematiche afferenti alla sicurezza, con particolare riferimento ai profili economico-finanziari, nell’Ufficio di diretta collaborazione del vicepresidente del Consiglio dei ministri, Antonio Tajani, dell’ex comandante generale della Guardia di finanza, Giorgio Toschi.

In un momento in cui la sicurezza economico-finanziaria è sicuramente una priorità assoluta per il nostro paese, Toschi sarà sicuramente una garanzia anche per quanto riguarda le relazioni con i servizi investigativi economico-finanziari di tutta Europa. Apprezzato e stimato a livello europeo e internazionale, è stato il trasformatore della Guardia di Finanza da semplice polizia tributaria a polizia economico-finanziaria. Con competenza operativa non solo per la lotta alla grande evasione e criminalità fiscale, ma anche per tutte le forme di criminalità che provocano nocumento anche agli interessi finanziari attinenti alle spese dello Stato e dell’Unione europea.

Di casa a Bruxelles, dove la sua esperienza è stata più volte oggetto di audizioni al Parlamento europeo e presso le altre istituzioni Ue, Toschi è anche Consigliere di Stato e Consigliere d’amministrazione della Cassa Depositi e Prestiti. Il suo ruolo presso la presidenza del Consiglio sarà quindi essenziale anche per vigilare sui rischi di derive patologiche nell’attuazione del Pnrr. Boccone particolarmente appetibile per la criminalità organizzata. Ma sarà anche un ulteriore biglietto da visita dell’europeismo, seppur criticamente costruttivo, che sembra caratterizzare il governo di Giorgia Meloni.

Già testimoniato peraltro dalla presenza a Palazzo Chigi di un Consigliere diplomatico del livello e dell’esperienza dell’ambasciatore Francesco Maria Talò. Ex rappresentante permanente d’Italia presso il Consiglio Atlantico a Bruxelles e punta di diamante della diplomazia italiana. Il cui europeismo, oltre che l’atlantismo, non può essere messo in discussione da nessuno. Al pari dell’atlantismo ed europeismo dei due capi di gabinetto di Antonio Tajani, provenienti anch’essi da Bruxelles e di grande autorevolezza. Alla Farnesina, Francesco Genuardi, ex ambasciatore d’Italia in Belgio. E a Palazzo Chigi, come vicepremier, il dirigente generale di pubblica sicurezza Sandro Menichelli, che vanta una passata ma lunga permanenza anche alla Rappresentanza d’Italia presso l’Ue, dove ha seguito tutte le problematiche relative agli affari interni, all’immigrazione e alla cooperazione di polizia.

L’autorevolezza e l’apertura internazionale di questi “grand comis” di Chigi e dintorni, si aggiunge a quella del capo di gabinetto, quale vicepremier, di Matteo Salvini. Cioè dell’ex segretario generale dell’Avvocatura dello Stato, il sicilianissimo Paolo Grasso. Giurista di grande valore, convintamente europeista – ha difeso l’Italia presso la Corte di Lussemburgo – e unanimemente rispettato nel ristretto club dei segretari generali di tutte le Istituzioni dello Stato, compreso il Quirinale.

Chi semina bene può sperare di raccogliere, si dice. E le premesse di un buon raccolto, nonostante le inevitabili grandissime difficoltà da affrontare, almeno sul piano delle relazioni con la macchina europea, sembrano esserci per il governo. Almeno sul piano dell’autorevolezza richiamata in “Io sono il potere” dei più stretti consiglieri di vertice del governo. Confermata dalla nomina dell’ex comandante generale della Guardia di finanza.

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