Servono buone istituzioni, più che buone intenzioni, per moralizzare la politica. Ma le buone istituzioni non si creano senza le buone intenzioni. Un circolo vizioso ancora senza via d’uscita. L’opinione di Giuseppe De Tomaso
Sono politici o lobbisti? Sono parlamentari o affaristi? Il confine tra questi due mondi sta diventando sempre più impercettibile, quasi invisibile. Beninteso: non tutti i rappresentanti del popolo, in barba a qualsiasi conflitto di interessi, tradiscono il mandato ricevuto dagli elettori flirtando sistematicamente con un succoso secondo lavoro, stavolta al servizio di Stati, imprese, società finanziarie, corporazioni ed enti di varia natura. Ma il numero degli infedeli, dei doppiolavoristi, è in continua crescita, a conferma di una crisi generale ed esistenziale di valori e ideali, tipica di una società sempre più liquida. E il bello, cioè, il brutto è che più ci si scaglia contro Mammona e il liberismo, più si maledice il denaro, ricondannandolo come sterco del diavolo, e più l’odore dei soldi si diffonde nelle magioni e negli stili di vita dei numerosi predicatori, pauperisti a parole, ma emuli di un Briatore nei fatti.
L’impressione, sempre meno tale perché si è in cammino verso la certezza, è che sono sempre di più coloro che si candidano per una postazione pubblica con il retropensiero di utilizzare la nuova carica per mansioni supplementari, che, nel volgere di poco tempo, potrebbero evolvere in lucrative occupazioni primarie. Oggi il tandem di economisti americani formato da James M. Buchanan (1919-2013) e Gordon Tullock (1922-2014), aggiornerebbe da cima a fondo il formidabile volume “Il calcolo del consenso” (1962), un classico degli studi politico-economici, che spianò la strada del Premio Nobel al primo dei due autori. La teoria di Public Choice, da entrambi elaborata, si può riassumere così: i voti, cioè il consenso elettorale, stanno alla classe politica come il profitto sta alla classe imprenditoriale. Tutto si fa per il consenso in politica: dagli scambi di favori parlamentari alle pratiche trasformistiche contrabbandate per chissà quale genialata. Oggi, quella coppia di economisti accenderebbe un faro non solo sul Fattore Consenso, ma anche, o soprattutto, sul Fattore Affari che tanto ammalia una fetta consistente di eletti.
Strasburgo, Bruxelles, Roma e via scendendo. Cambia poco. Parecchi rappresentanti del popolo trascorrono le loro giornate nelle capitali della politica con la testa e i piedi rivolti più a sbrigare le pratiche e le incombenze dei loro committenti, quasi sempre imprese e associazioni smaniose di farsi rapidamente largo nell’intricata giungla della burocrazia europea e nazionale, che a espletare in aula o in commissione il compito affidato loro da parte degli elettori. Il più delle volte le imprese, multinazionali o domestiche, che si giovano dei preziosi e più veloci servizi svolti dai parlamentari-faccendieri di riferimento, sono le stesse che hanno contribuito al budget elettorale dei candidati successivamente eletti. Ma non è un do ut des automatico. Nuovi ingaggi, nuovi accordi, nuovi sodalizi possono spuntare e formarsi anche strada facendo. Sicché non sono del tutto infondati, o campati in aria, i dubbi di chi collega le cosiddette politiche industriali, varate immancabilmente dai governi di ogni colore, alla canonica pioggia di contributi e sussidi destinata sovente a ripagare, sul piano normativo, i finanziatori di campagne elettorali coronate dal successo.
Quando, poi, è cronaca di questi giorni, sono i lobbisti di Stati stranieri a corteggiare e spesso sedurre parlamentari di casa nostra sensibili al fruscio delle banconote, allora significa che il fenomeno immorale ha già assunto proporzioni e dimensioni di estrema gravità, dal momento che, in questi casi, può mettere in pericolo la stessa sicurezza di quei Paesi rappresentati da un manipolo di fedifraghi (verso le istituzioni liberaldemocratiche).
Che fare allora per allontanare la politica dagli affari e gli affari dalla politica? Non si conoscono ricette miracolose. Ma si può almeno ridurre la portata del danno. Innanzitutto, bisogna convincersi che la corruzione, essendo nata con l’uomo, non è del tutto eliminabile, perché ineliminabile è, appunto, la diabolica tentazione degli esseri umani di arricchirsi con mille trucchi, spesso illeciti.
N
on ci sono, poi, soluzioni legislative sperimentate e pronte in vetrina. L’intermediazione della politica, e della burocrazia, è così diffusa e pervasiva che ogni intervento teso a tagliare i relativi tentacoli rischia di rivelarsi più controproducente di un aperitivo allungato col veleno, dato che l’intermediazione politica può disporre di complici, di amici in tutti i gangli della struttura statale.
E però. Lo straripante Stato italiano e la debordante burocrazia europea farebbero bene a sottoporsi a una bella, continua cura dimagrante, non foss’altro che per eliminare quei tessuti adiposi sui quali si adagiano molti inseguitori del guadagno facile, sempre a caccia delle prebende alimentate dallo Stato padrone. Programma vasto e ambizioso? Può essere. Ma si potrebbe cominciare. Ad esempio: rendendo inemendabile la legge di bilancio, visto che diversi emendamenti spesso sono ispirati da lobby e centri di potere impegnati a procurarsi rendite su rendite, privilegi su privilegi. Se poi la legge di bilancio non dovesse passare, la parola passerebbe di nuovo agli elettori. Ma, perlomeno, con la mannaia sugli emendamenti si infliggerebbe un bel colpo ai persuasori occulti che si muovono, in Europa e in Italia, nella penombra delle istituzioni decisionali.
Servono buone istituzioni, più che buone intenzioni, per moralizzare la politica. Ma le buone istituzioni non si creano senza le buone intenzioni. Un circolo vizioso ancora senza via d’uscita.