Nelle trecento pagine del saggio “Francesco Merloni. Il Secolo dello Sviluppo. Internazionalizzazione e coscienza territoriale”, a firma di Giorgio Mangani (Il Lavoro Editoriale), si leggono passi importanti della storia dell’industria moderna italiana. Il canone egemone è quello della politica, intesa come strumento nobile per incidere nella realtà, modificandola in meglio. La rubrica di Pino Pisicchio
Ci sono due modi per un imprenditore di avvicinarsi alla politica. Uno è quello che abbiamo imparato a conoscere allo scoccare della Seconda Repubblica, e lascia un retrogusto un po’ ambiguo, con un passo incerto sull’orlo del conflitto d’interessi, in una logica di presidio dei luoghi di decisione a tutela degli affari. Propri. Un altro modo è quello di chi arriva alla politica sospinto da una passione sociale e civile, per portare il suo impegno a sostegno di principi, valori e modelli di sviluppo che possono dire qualcosa di senso al Paese.
Francesco Merloni appartiene a questa seconda categoria, più rara, ma che affonda le sue radici nelle origini della Repubblica, quando potevi trovare in Parlamento personalità come Enrico Falck, capitano d’industria, ma anche partigiano bianco, ispirato dal senso civico più alto.
È dalla passione politica e sociale di Francesco, figlio di Aristide Merloni, fondatore dell’Ariston e delle Industrie che portavano il suo nome, allora, che bisognerà partire per comprendere meglio il libro “Francesco Merloni. Il Secolo dello Sviluppo. Internazionalizzazione e coscienza territoriale”, a firma di Giorgio Mangani (Il Lavoro Editoriale, 2022), appena giunto in libreria.
Nelle trecento pagine di questo saggio, in cui si leggono passi importanti della storia dell’industria moderna italiana, il canone egemone, anche se probabilmente preterintenzionale, è quello della politica, intesa come strumento nobile per incidere nella realtà, modificandola in meglio.
Francesco, laurea in ingegneria industriale a Pisa, cominciò ad affiancare il padre fin dagli anni ’50 al timone dell’azienda di famiglia orientando la scelta produttiva verso la diversificazione rispetto all’originaria monoproduzione, includendovi in una prima fase gas liquido e riscaldamento, per arrivare, a partire dagli anni ’70, agli elettrodomestici e all’orizzonte internazionale.
È l’epopea della Ariston Thermo, in seguito Ariston Group, l’azienda multinazionale oggi retta dal figlio Paolo e quotata in Borsa. Quella che è oggi un’azienda di riferimento mondiale nel settore del confort termico, ha rappresentato e tuttora rappresenta, anche un modello vincente di equilibrio tra radicamento territoriale e orizzonte globale, una formula che funziona pure nel rapporto con le maestranze, che risente anche dell’eco di alcune esperienze della Comunità olivettiana.
L’Ariston impose dapprima l’inversione della regola che voleva negli anni del boom economico la concentrazione degli insediamenti produttivi nelle aree industriali dei “triangoli”, difendendo la territorialità del lavoro in un’area “periferica” del centr’Italia, e poi seppe mantenere questo modello anche negli anni a noi più vicini, quando la globalizzazione andava a coniugarsi con la “delocalizzazione”, difendendo la linea adriatica allo sviluppo dove nacque il cosiddetto “quarto capitalismo”.
La consapevolezza di aver tracciato una nuova via per l’industria italiana, un modello culturale da promuovere e su cui potersi confrontare, è coltivata dalla Fondazione Aristide Merloni, istituita 60 anni fa, che adesso si propone come un’archivio storico dedicato non solo alla memoria del fondatore e della sua azienda, ma anche come preziosa testimonianza documentale dell’industria italiana, della sua peculiarità, della sua eccellenza e delle sue nuove possibilità.
Ma, si diceva della politica come passione e come dovere civico, vissuta da Merloni parlamentare e poi ministro. Se dovessi trovare una sola definizione per descrivere la vocazione politica di Francesco andrei a cercarla negli aggettivi “cattolico-democratico” e “sociale”; se dovessi far sintesi di una sua visione dell’economia, direi che in lui è presente il convincimento della necessità di un’economia mista, capace di mettere al riparo dagli effetti di un liberismo sregolato e dallo statalismo collettivista: una terza via è possibile per il “politico” Merloni, che attinge dalla visione cristiano-sociale secondo cui incombe sull’impresa un’ ineludibile responsabilità sociale.
Merloni è stato parlamentare della Dc e, dopo la scomparsa del partito, dei Popolari, per sette volte, dalla sesta alla tredicesima legislatura, per due volte al Senato e per cinque alla Camera, rappresentando sempre il suo popolo marchigiano. È stato ministro dei Lavori Pubblici dal 1992 al 1994, nei governi Amato e Ciampi, varando una riforma degli appalti nella stagione più difficile, quella in cui la questione morale irrompeva nella politica spazzando via un’intera classe dirigente. Ha combattuto gli sprechi pubblici, anche nella forma “istituzionalizzata” delle Partecipazioni Statali ed ha difeso le ragioni della cultura in politica, promuovendo strumenti di ricerca e di riflessione come l’Arel, da lui fondata con Nino Andreatta, e sodalizi di pensiero con personalità del mondo cattolico-democratico come Giuseppe De Rita e Romano Prodi.
Anche i tratti caratteriali di questo imprenditore impegnato in politica contraddicono l’immagine irruente del tycoon a cui ci ha abituato la cronaca contemporanea: un uomo gentile, schivo, mai retorico, abituato a parlare sottovoce. Per educazione non direbbe mai parole fuori registro. Ma guai a scambiare il suo galantomismo per remissività: mai e poi mai cederebbe un solo millimetro sui principi. E la lettura di questo libro lo fa ben comprendere.