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La violenza nel pallone stadio finale del tribalismo generale

Chi pretende o ritiene di possedere la soluzione in tasca, sta barando. Del resto se tutta la società è afflitta dalla violenza, è illusorio pensare che il mondo del pallone possa rappresentare un’eccezione, un’oasi di pace e convivenza civile. Il commento di Giuseppe De Tomaso

Sosteneva Winston Churchill (1874-1965) che gli italiani vanno allo stadio come se andassero in guerra e vanno in guerra come se andassero allo stadio. Chi ha visto i filmati sugli scontri tra i tifosi (sic) del Napoli e della Roma lungo l’Autostrada del Sole, tra Monte San Savino e Arezzo, non potrebbe che dare ragione allo statista britannico vincitore del secondo conflitto mondiale. In una domenica italiana si è vissuto uno scenario di guerra, che a molti ha inevitabilmente ricordato le tragiche immagini provenienti dall’Ucraina, nazione contro cui è stata scatenata una guerra militare vera e propria. Un’autostrada chiusa, code chilometriche, viaggiatori bloccati e impauriti, devastazioni.

Per fortuna non tutti gli italiani sono come li raffigurava Churchill, ma per sfortuna la minoranza di teppisti che rovina la festa di tutti, prima, durante e dopo le partite, non tende a calare. Anzi, la sua tracotanza sembra perennemente a caccia di nuove sfide, di continue provocazioni.

Il fenomeno del tifo violento non riguarda solo l’Italia. Se fosse un problema antropologico dello Stivale, dovremmo prendere per buona qualche spiegazione lombrosiana in materia. Il che sarebbe improponibile, oltre che inconcepibile, assurdo. Meglio lasciar stare.

Piuttosto, la constatazione che la violenza nello sport esuli in molti casi dal puro accadimento agonistico – come è avvenuto in autostrada con incidenti tra tifoserie le cui squadre non avrebbero dovuto sfidarsi sullo stesso terreno di gioco – dà forza alla tesi secondo cui il pallone, il più delle volte, è solo un pretesto per aggredire e delinquere, e che se non ci fosse il calcio quel tipo di delinquenza avrebbe trovato altri recinti in cui esplicarsi.

Non siamo esperti del settore. Ma ci sembra che il tifo ultrà e vandalico abbia qualcosa in comune con la mentalità e la pratica mafiose: entrambi i fenomeni sono l’esasperazione del concetto di tribù. E siccome l’idea di tribù è quanto di più lontano possa esserci dal principio di tolleranza e di libertà, e siccome – purtroppo – il tribalismo continua ad avanzare anziché arretrare nella quotidianità, ecco che gli atti, anzi i misfatti, come quelli registrati ieri tra opposte tifoserie, tendono a crescere, o a resistere, a dispetto di tutte le disposizioni e le restrizioni di legge varate negli ultimi anni.

Tolleranza zero, si chiede. La introdusse per prima Margaret Thatcher (1925-2013) all’indomani della vergogna dell’Heysel, lo stadio belga teatro, il 29 maggio 1985, della furia omicida (39 morti, 600 feriti) degli hooligan durante la finale di Coppa dei Campioni tra la Juventus e il Liverpool. La Lady di ferro precluse in Gran Bretagna gli stadi ai violenti, impose la ristrutturazione degli impianti, stabilì l’obbligo dei posti a sedere e accesso solo agli spettatori muniti di biglietti e carte d’identità. Fece capire, la Thatcher, che la musica era cambiata e che se le violenze fossero continuate, i tifosi avrebbero visto solo col binocolo le proprie squadre di nuovo in campo.

Oggi, però, neppure una rediviva Thatcher riuscirebbe a venire a capo del problema, visto che il tribalismo bellicista si è trasferito fuori dai templi di gioco. Certo, le società calcistiche hanno le loro responsabilità, dal momento che non sempre riescono a sottrarsi ai ricatti dei caporioni del tifo violento, a volta esse hanno dato l’impressione di chiudere più di un occhio.

Ma quella dei club rimane, non dimentichiamolo, una responsabilità oggettiva che, per il nostro impianto giuridico, costituisce un’eccezione di fronte al criterio generale della responsabilità penale che è e deve essere sempre personale. Fino a un certo punto si possono inchiodare le società calcistiche alle proprie responsabilità. Al di là di una certa soglia, non si può andare, pena la chiusura dei campionati, con il pericolo implicito di eccitare vieppiù gli animi e, per eterogenesi dei fini, aggravare definitivamente la situazione.

Chi pretende o ritiene di possedere la soluzione in tasca, sta barando. Non è semplice fronteggiare bande di malfattori, la cui condotta criminale può dipendere da svariate motivazioni, o essere spia di marginalizzazioni sociali o di patologie psicologiche individuali. Del resto se tutta la società è afflitta dalla violenza, è illusorio pensare che il mondo del pallone possa rappresentare un’eccezione, un’oasi di pace e convivenza civile.

Forse è il caso di riflettere sui comportamenti della massa, sugli effetti che la folla produce negli individui. Il sociologo-psicologo Gustave le Bon (1841-1931) ha scritto parole tutt’altro che superate nella sua “Psicologia delle folle” (1895), un classico: “Ciò che più ci colpisce di una massa psicologica è che gli individui che la compongono – indipendentemente dal tipo di vita, dalle occupazioni, dal temperamento o dall’intelligenza – acquistano una sorta di anima collettiva per il solo fatto di trasformarsi in massa. Tale anima li fa sentire, pensare e agire in un modo del tutto diverso da come ciascuno di loro – isolatamente. sentirebbe, penserebbe e agirebbe. Certe idee, certi sentimenti nascono e si trasformano in atti soltanto negli individui costituenti una massa. La massa psicologica è una creatura provvisoria, composta di elementi eterogenei saldati assieme per un istante, esattamente come le cellule di un corpo vivente formano, riunendosi, un essere nuovo con caratteristiche diverse da quelle che ciascuna di queste cellule possiede”.

Dunque. La psicologia collettiva che prevale sulla psicologia individuale. Gira e rigira, siamo sempre lì. Alla concezione tribale che nel tifo calcistico tocca livelli siderali.

Come venirne fuori? Combattendo la subcultura, la patologia del tribalismo, che non dilaga solo nello sport, ma, purtroppo, in tante altre attività umane. Si obietterà: è un programma vasto e ambizioso. Ok. Ma una volta o l’altra bisogna pure iniziare: dalla scuola, dagli organi di informazione… Fino a quando non capiremo che la tribù va combattuta perché è l’antitesi della società aperta e della stessa democrazia, il calcio resterà la metafora di un mondo e di un paese.
Non illudiamoci, perciò. Anche perché il binomio tra social network e tifo è esplosivo e continua a gettare altra benzina sul fuoco. E fermiamoci qui.



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