L’Italia potrà diventare uno snodo chiave europeo, lungo la direttrice che da Sud porta a Nord. Ma serve una strategia e una regolamentazione comune in Europa, oltre che uno sprint burocratico. Dopo gli interventi del presidente e del direttore generale della Confindustria del gas, hanno parlato Besseghini, Descalzi, Venier, Monti, Regina, con l’intervento del ministro Pichetto Fratin
“Per il potenziamento della linea Adriatica servono 4 anni da qui alla fine del 2027”, parola di Stefano Venier, amministratore di Snam. “In Libia, con maestranze egiziane, ci abbiamo messo 9 mesi a fare un gasdotto più lungo”, replica l’ad Eni Claudio Descalzi. In un rapido scambio di battute – nel corso della prima assemblea pubblica di Proxigas, l’associazione che riunisce le imprese del settore – si condensa in nuce tutta la difficoltà di una sfida: quella di trasformare l’Italia nell’hub europeo del gas.
C’è tuttavia anche il fascino di una scommessa su cui Proxigas ritiene esistano margini di successo: “La domanda di gas crescerà nei prossimi anni – dice Marta Bucci, direttore generale dell’associazione, dopo i saluti del presidente Cristian Signoretto – e l’Italia grazie alla sua posizione geografica, potrà approfittarne”. Esiste però una condizione: abbandonare la sindrome dell’emergenza (copyright Stefano Besseghini, presidente di Arera) che impedisce di costruire una strategia di ampio respiro in tre mosse: potenziare la capacità di importazione di gas, costruire infrastrutture adeguate per pomparlo in Europa (da Sud verso Nord) e svilupparne al massimo la produzione nazionale.
Basti pensare alla domanda di gas naturale, nel 2021 pari a circa 75 miliardi di metri cubi, soddisfatta solo per il 4% dalla produzione domestica malgrado sul territorio nazionale e nelle relative acque ci siano 110 miliardi di metri cubi, che possono arrivare a 200 senza troppa fatica. Senza velleità autarchiche – l’Italia non può aspirare all’indipendenza energetica, ma alla minor dipendenza possibile – occorre migliorare anche la capacità d’importazione: in particolare del gas naturale liquefatto (Gnl) su cui pesa una forte contesa tra Europa e paesi asiatici.
Negli ultimi due anni produttori americani e acquirenti cinesi hanno annunciato decine di contratti a lungo termine, mentre gli operatori europei si sono mossi per volumi e durate molto limitati. Al di là dei rigassificatori, cruciali per allentare le tensioni di mercato (quello di Piombino sarà pronto tra sei mesi, mentre per quello di Ravenna bisognerà attendere il 2024), senza contratti a lungo termine il rischio è quello di prolungare ancora la volatilità dei prezzi. “Bisogna fare presto. Arriveremo al 40% della domanda che può essere soddisfatta con il Gnl – spiega Stefano Venier – e in questo Israele (che porterebbe il gas liquefatto via Egitto n.d.r.) può rappresentare un’opportunità molto interessante”.
“Il peso delle importazioni di gas russo in Europa è troppo alto, mancando una di queste fonti il mercato è andato in crisi e abbiamo visto la conseguenza sull’aumento dei prezzi”, così Nicola Monti, ad di Edison, la società che ha costruito (superando parecchie difficoltà burocratiche) il primo rigassificatore offshore d’Italia, a Rovigo.
La sfida è avvincente, le opportunità ciclopiche: con il corridoio est-ovest di fatto chiuso, l’Italia potrà diventare un mercato di transito, lungo la direttrice che da Sud porta a Nord. Riempire questo spazio, spiega Descalzi, “è vantaggioso perché ci assicura la sicurezza energetica, commerciale e la possibilità di sederci a tavoli politici”. La geografia tuttavia non basta: “Se vogliamo essere un hub per il gas – aggiunge – dobbiamo capire se ci sono le infrastrutture per esserlo”. Serve fare in fretta sui 425 Km della dorsale adriatica e – come afferma il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica Gilberto Pichetto Fratin – raddoppiare la Tap e potenziare il gasdotto che collega l’Algeria alla Sicilia.
Il rischio altrimenti è quello di scontrarsi con la dura legge del mercato: avere sempre meno gas – a fronte di una domanda che tende a crescere – e pagarlo sempre di più (per l’energia abbiamo speso 7 volte gli Usa e adesso siamo a 4 e tornare ai prezzi di 5 anni fa è difficilissimo). Basti pensare che il sistema industriale italiano è passato da un costo di circa 8 miliardi nel 2019 ai 60 del 2022: “Se dovessero mancare gli investimenti pubblici, ci troveremmo nella stessa situazione dello scorso anno”, ha affermato senza mezzi termini Aurelio Regina, presidente del gruppo tecnico Energia di Confindustria.
La scommessa va vinta, e non solo per l’Italia: a causa della crisi energetica, l’Europa si è trovata a dover sostituire il 40% delle proprie forniture. “Eppure – come afferma Regina – parlare di hub europeo del gas senza avere una strategia e una regolamentazione comune significa parlare di un bel titolo ma non essere pragmatici”.