Il Pd ha molta strada da fare per riconquistare il popolo perduto secondo Mario Tronti, filosofo e padre dell’operaismo italiano. La fusione a freddo delle due anime (ex e post-comunisti con ex e post-democristiani) non poteva funzionare, e ha lasciato campo libero a una lunga fase demagogica e di anti-politica
Comunista, schmittiano per compensazione e occhio critico puntato sul mondo. Sono sufficienti poche parole per descrivere Mario Tronti perché la sua voce è chiara. Secondo Tronti, chi invece non sa più come parlare è il Partito Democratico, che dovrebbe porsi delle priorità: partire da una classe dirigente all’altezza dei tempi, rappresentare una parte della società, troncare con i Cinque Stelle, conoscere il proprio nemico e farsi trovare intellettualmente pronto difronte alle sorprese che riserva “il mondo grande e terribile”.
Partiamo da una parola: sinistra. Cosa indica, oggi, e quali interessi dovrebbe rappresentare questa parte per poter essere definita tale?
Da com’è messa la sinistra, non solo in Italia ma in Europa e nel mondo occidentale, credo che si tratti di una parola politicamente debole, deteriorata e neutralizzata. Difatti, molti affermano: “non c’è più la sinistra, non c’è più la destra”. In realtà, le due postazioni contrapposte esistono ancora. Però, nella concezione generale questo termine non evoca qualcosa di preciso, tant’è vero che coloro che si reputano di sinistra preferiscono dirsi “progressisti”. Bisognerebbe fare uno sforzo creativo per inventare un’altra parola forte come quelle di una volta: socialismo, comunismo. Parole forti, appunto, e riconoscibili, capaci di trasmettere un’identità.
Mentre, oggi, quando parliamo di “sinistra” è necessario spiegare che cos’è, che cosa vuoi, da che parte stai. Penso che vivere in una società capitalistica significhi vivere in una società divisa. E un tempo, la divisione si esplicitava attraverso le grandi classi sociali. Per esempio, il Partito Comunista era il partito della classe operaia, almeno fino a Berlinguer perché successivamente questa posizione si diluirà. Oggi, la classe operaia non è certo scomparsa, ma il punto è che gli operai non fanno più classe, non fanno più parte di un’organizzazione. E anche la classe contrapposta si è molto frantumata. Insomma, con la fine del capitalismo industriale la differenza radicale, la contrapposizione di classe si è molto indebolita…
Il Pd si accinge a celebrare il suo congresso. Ci aspettavamo un cambio radicale. Cosa serve per avviare una vera fase costituente della sinistra e cosa serve per ottenere una rottura?
Ultimamente, mi sono convinto di una cosa: c’è una doppia crisi a sinistra, dell’alto e del basso. In primis, una crisi di classi dirigenti. Il ceto politico della sinistra ha subito un’involuzione lenta, graduale, quasi definitiva. Parliamo di dirigenti che non possono più vantare un riferimento reale, sociale, di classe, un punto di vista di parte. Inoltre, il vero difetto del Pd è di non essere un partito, ma piuttosto un movimento di opinione. Perché un partito è un’organizzazione di parte, non un’organizzazione che fa l’interesse generale…quello fingono di farlo i capitalisti. Poi, c’è anche una crisi di popolo. Abbiamo un mondo del lavoro frantumato e preda di un disorientamento politico di massa, visibile a occhio nudo ad ogni elezione.
Ormai gli elettori, vittime di una comunicazione sfacciatamente demagogica, votano inseguendo le ultime novità; prima si è andati dietro a Berlusconi, poi a Grillo, poi a Salvini, adesso è il turno di Giorgia Meloni. Io non sono mai stato uno spontaneista. Sai, nel movimento operaio vigeva una distinzione tra i luxemburghiani che preferivano partire dalla spontaneità delle lotte e i leninisti, i quali ritenevano che bisognasse prima creare un soggetto politico (un partito) in grado di guidare le lotte e dopo, quando possibile, una frattura rivoluzionaria. E allora, penso che ripartire dal basso, come molti generosamente vogliono fare, dalla partecipazione, dal civismo, dalle primarie, dall’opinione pubblica, sia insufficiente.
Oggi, il popolo è stato spodestato dalla “gente”, unificata virtualmente attraverso i social, e la funzione di questi non è quella di orientare ma di disorientare. Quindi, sono convinto che bisogna partire dall’alto. Risulta vitale costruire una classe dirigente forte, decisa, che riscopre la propria parzialità dentro questa società divisa, e la rivendica e su questa base riorganizza il fronte mediante il conflitto sui temi caldi dell’agenda sociale. Tuttavia, qui, vediamo riemergere il problema grande e insolubile: dove sono questi uomini e queste donne capaci di fornire un orientamento alle masse?
Tutti i candidati al congresso democratico intendono mettere al centro della propria agenda politica il lavoro. Eppure, il Partito Democratico è il quarto partito fra i lavoratori. Quando e perché è crollato questo legame e, soprattutto, come ricostruire una connessione con la classe lavoratrice e con il blocco sociale storico della sinistra?
Dunque, la domanda è impegnativa perché il mondo del lavoro è profondamente cambiato. Questo non da oggi, ma da molti decenni. Dobbiamo fare sempre riferimento e ritornare a quella svolta di capitalismo moderno avvenuta dagli anni Ottanta in poi. A metà degli anni Settanta, si fece corrispondere la famosa riunione della cosiddetta Trilaterale (Stati Uniti, Europa, Giappone) alla fine del grande Novecento politico. Irruppe l’idea dell’andare oltre e questo comportò il deperimento del capitalismo connotato dalla centralità della grande industria e la nascita di un capitalismo a centralità tecno-finanziaria, e quindi la fine, con neoliberismo, dell’intervento statale in economia e del welfare.
La reazione ai trent’anni gloriosi, dal ’45 al ’75, si materializzò in una forte contestazione delle conquiste dei lavoratori fin lì aggiunte. La Trilaterale cominciò a parlare di un eccesso di domande che bisognava arginare, poiché si trattava di rivendicazioni troppo avanzate, troppo pericolose. Da quel momento, il tramonto del capitalismo industriale segnò la fine della centralità operaia e, di conseguenza, il mondo del lavoro si frantumò in tanti rivoli. Non più il lavoratore salariato al centro di un blocco sociale. E’ cresciuto il lavoro nei servizi, è cresciuta la figura del lavoratore autonomo che ha avute tante generazioni (di prima, di seconda, di terza); è riemerso l’esercito di riserva che è stato ed è tutt’ora fondamentalmente rappresentato dal precariato, dai contratti a tempo determinato.
Cioè il mondo del lavoro è molto difficile da riunificare e il sindacato lo sa bene. Si pensi alle grandi fabbriche, oggi mutate in luoghi post-industriali. Pensiamo ai grandi capannoni della Fiat dove oggi si organizzano la fiera del libro, convegni intellettuali, mostre d’arte. Dell’antica concentrazione operaia non vi è più traccia. Tra l’altro, in Italia è emersa la rete di piccole e medie industrie, ossia di un lavoro orizzontalmente stratificato che risulta arduo unificare. Ripeto il sindacato fa grande fatica, e non a caso, ormai, anche la stessa CGIL (senz’altro il sindacato più vicino a un’idea di sinistra) è più un sindacato dei pensionati che dei lavoratori.
E se fatica il sindacato a rappresentare il mondo del lavoro figuriamoci il partito politico…
Già, eppure questa riunificazione non è impossibile. Appare impossibile perché né il sindacato né il partito si impegnano in un’azione che miri a riunificare questo mondo del lavoro, bensì lo rappresentano così com’è: stratificato e disperso, a volte in modo corporativo. Ma questo non basta, perché così il lavoro non conta, così il lavoro non ha forza. Oggi si dice: non esiste il lavoro, esistono i lavori. Una pluralizzazione che implica una operazione di neutralizzazione. Prendiamo questo Pd in gran tempesta. Qualcuno propone di inserire la parola “lavoro” nel nome del partito.
Una decisione che reputo di buon senso, forse utile, anche se non risolutiva. Ma ecco che subito si è scatenato il putiferio: queste sono categorie novecentesche, così facendo torniamo indietro ecc! Io, al contrario, sostengo che tra le persone normali il lavoro è ancora centrale nelle loro vite. Voglio dire, le famiglie di cosa parlano a casa? Del lavoro che c’è e del lavoro che non c’è, della condizione di precarietà che attanaglia i loro figli, del lavoro femminile che è del tutto minoritario, del salario che non è sufficiente per arrivare alla fine del mese. Di questo parla, di questo vive una famiglia! Piuttosto, mi piacerebbe sapere dove vivono coloro che classificano il lavoro come un qualcosa di vecchio e superato.
Quindi il centro-sinistra non ha più ragion d’esistere?
No, perché il centro- sinistra è nato contro il centro-destra di Silvio Berlusconi. Non dimentichiamo che oltre al ventennio berlusconiano abbiamo avuto vent’anni di anti-berlusconismo, entrambi micidiali e deleteri per la sinistra che per battere il Polo per le libertà pensò bene di mettere su l’Ulivo. Poi si è voluto fare dell’Ulivo un partito e quando il berlusconismo è giunto al capolinea non c’è stata nessuna modifica della strategia. Per altro, si è passati anche attraverso varie crisi. Dagli anni ’90 in poi, la sinistra italiana ed europea si illusero che potesse nascere un capitalismo sostenibile, una concezione che trovò la sua forma nella terza via tracciata da Tony Blair provocando un allontanamento dalle radici. Questa fusione a freddo delle due anime (ex e post-comunisti con ex e post-democristiani) non ha funzionato perché non poteva funzionare. Purtroppo, questo ha lasciato campo libero a una lunga fase demagogica e di anti-politica, di cui sono stati protagonisti soprattutto i Cinque Stelle.
A proposito, come interpreta questa ricerca spasmodica di voler consolidare un’alleanza organica con il partito di Conte?
Continuo a pensare che siano stati una sciagura per il sistema politico italiano, perché con la demagogia antipolitica, con il qualunquismo, antica tara italica, hanno provocato e poi usato quel disorientamento di cui parlavamo. Le piazze di Grillo e quel modo di fare invece che politica, antipolitica, sono irrimediabilmente reazionari. Piuttosto che rincorrerli e contendersi la bandiera progressista bisognerebbe asciugare quella palude e ripartire con l’organizzazione di una grande forza politica popolare per recuperare il popolo perduto. Una potenziale rinascita della sinistra può avvenire mediante un grande ri-orientamento politico. Un auspicio quasi utopico perché non vedo le persone in grado di assumere questa postazione critica, alternativa, addirittura antagonistica. È sempre possibile uno strappo che rimetta in moto i soggetti. Ci vuole un passaggio di frattura reale, di catastrofe che apra uno stato di eccezione. Tutte le istanze rivoluzionarie sono partite da qui…
Ed ecco il vecchio Schmitt. Il giurista di Plettenberg ci insegna che la politica si manifesta anche attraverso la distinzione amico-nemico. Chi è il nemico oggi?
Il nemico è sempre lo stesso: l’organizzazione capitalistica della società. E le forme di vita, le forme di mondo che questa comporta. Perché oggi si vive secondo il modo in cui la società ti dice di vivere, non c’è una scelta libera. Ho compiuto una grande fatica nell’introdurre il criterio schmittiano di amico-nemico a sinistra, e tutt’ora questo criterio elementare della politica non passa. Infatti, i più non considerano il nemico nemico, ma un avversario. È una fuga. Temono questa parola. Ma il nemico di classe è una realtà e non si gestisce con la violenza bensì con il conflitto. In breve, ad essere meno chiaro è l’amico, cioè la parte che si dovrebbe contrapporre.
Potremmo dire, c’era una volta l’antagonismo sociale. Oggi i progressisti parlano di coesione.
Ma certo. La coesione sociale viene praticata dai capitalisti perché gli fa comodo, e così facendo eliminano le lotte scomode. L’idea di conflitto non c’è più nella testa dell’attuale dirigenza democratica, non solo nel pd ma anche nelle forze minoritarie, nella sinistra radicale, quella sostenuta da certi benpensanti e benestanti, che non è molto distante dalla sinistra moderata e riformista. La prova sta nel fatto che quando si analizzano i flussi del voto, queste forze ottengono un forte riscontro nel loro insediamento fondamentale: i centri storici. Però nelle grandi periferie metropolitane non c’è alcuna differenza tra le due formazioni. Oggi, si bevono la transizione ambientale e digitale, e ne fanno una priorità assoluta. Ma vogliamo parlare della transizione sociale, del passaggio di società e di civiltà? Questo è il dramma…