Value gap, remunerazione, ruolo dell’Autorità. Dopo l’attenta lettura della delibera e degli allegati, è il momento di dare un giudizio sull’atteso Regolamento Agcom che dovrà disciplinare l’utilizzo online di pubblicazioni di carattere giornalistico per motori di ricerca, social e aggregatori. Una missione complicata affrontata con sforzo ed equilibrio, ma i risultati potrebbero essere contraddittori
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È stato finalmente pubblicato l’atteso Regolamento Agcom sull’Equo Compenso per l’utilizzo online di pubblicazioni di carattere giornalistico. Grazie alla lettura integrale della delibera Agcom e degli allegati, è possibile ora farne una più attenta disamina, approfondendo anche importanti aspetti che la lettura del solo comunicato stampa non permetteva.
Prima di affrontare in dettaglio questi aspetti, occorre innanzitutto precisare che una corretta valutazione del nuovo regolamento non può a mio avviso limitarsi a un’analisi formale del testo, ma dipende soprattutto dagli obiettivi che con esso si intendevano perseguire.
E da questo punto di vista i giudizi e le valutazioni possono variare a seconda della prospettiva con cui si affrontano.
Il ruolo dell’Agcom
Sul lato dei pro va senz’altro messa in conto la capacità dimostrata dall’Agcom di non assecondare una tendenza “interventista” che la normativa italiana di recepimento della Direttiva Copyright avrebbe potuto favorire, legata a quello che molti hanno definito un possibile eccesso di delega.
Come noto all’Agcom viene affidato un duplice ruolo: quello tipico del regolatore, di adottare con apposito regolamento i criteri di riferimento per l’equo compenso, a cui si aggiunge quello di arbitro, determinando e applicando essa stessa la misura dell’equo compenso nelle controversie tra le parti.
Questo ruolo di gendarme per fortuna viene opportunamente ridimensionato, poiché emerge al contrario la funzione sussidiaria dell’Agcom, laddove si ribadisce che il ruolo di bilanciamento degli interessi in gioco tiene necessariamente conto della libertà di iniziativa economica delle parti, costituzionalmente tutelata, di cui la libertà negoziale è espressione.
Ne consegue che l’equo compenso è, in via preliminare, oggetto di una libera negoziazione tra le parti che, nel pieno esercizio della loro autonomia contrattuale, possono addivenire ad un accordo tenendo conto anche dei criteri definiti dal regolamento.
In secondo luogo, anche in caso di mancato raggiungimento dell’accordo, si sottolinea come resti impregiudicato il diritto delle parti di ricorrere all’autorità giudiziaria.
Solo quando non emergano queste condizioni, su istanza di parte, l’Autorità può essere chiamata a intervenire al fine di offrire alla contrattazione una valida gamma di strumenti per la conduzione delle trattative.
L’oggetto dell’equo compenso: il value gap
Il secondo aspetto riguarda proprio la funzione di terzietà del regolatore. Pur presupponendo uno squilibrio di forza contrattuale tra le parti (altrimenti non si renderebbe necessario regolare l’equo compenso), il ruolo dell’Autorità rimane equilibrato e vincolato a parametri ritenuti “oggettivi”, quali quelli definiti nei criteri.
Vi sono, è vero, alcuni passaggi del Regolamento, soprattutto quando si analizza il contesto di mercato, in cui la lettura del fenomeno sembra avallare quella che ne fanno i grandi editori, come quando nei considerando si sottolinea come l’editoria, in particolare quella quotidiana, è l’ambito con maggiori difficoltà di carattere strutturale e congiunturale, con una contrazione dei ricavi complessivi, da vendita di copie e da pubblicità. E si lascia intendere che l’equo compenso si giustificherebbe anche per questo, come misura compensativa per restituire agli editori quanto perso e sottratto loro dagli intermediari/piattaforme.
Questo ruolo delle piattaforme spesso definito “parassitario” dagli editori tradizionali come noto non corrisponde alla realtà, essendo la crisi dell’editoria legata a ben altri fattori, in primo luogo alla difficoltà, e per molti editori, l’incapacità, di adattarsi al nuovo ambiente digitale.
In ogni caso però va ricordato come non sono i ricavi perduti dagli editori l’oggetto dell’equo compenso, ma all’opposto, come ricorda peraltro la stessa Autorità, quanto ricavato in più dal prestatore/piattaforma, cioè “il divario fra i ricavi conseguiti dagli intermediari che distribuiscono in rete i contenuti e il valore riconosciuto ai titolari dei diritti”, il cosiddetto value gap.
Si tratta di un valore economico molto più limitato, come ulteriormente limitato è l’ambito di applicazione. L’Autorità infatti opportunamente ricorda, come, ai fini della determinazione dell’equo compenso, lo stesso non è dovuto in caso di pubblicazione, aggregazione o condivisione di collegamenti ipertestuali o di singole parole o di estratti molto brevi, in particolare qualora tali estratti siano elaborati direttamente dagli editori come sintesi delle pubblicazioni di carattere giornalistico automaticamente utilizzabili dai servizi di intermediazione e di ricerca, neanche nell’ipotesi in cui il servizio permetta la visualizzazione dell’anteprima della pubblicazione all’utente.
Inoltre, sempre la stessa Autorità ribadisce che, in relazione al d.lgs. n. 177/2021, con specifico riferimento al “caricamento online di una pubblicazione di carattere giornalistico ad opera dello stesso editore per libera scelta”, “tale fattispecie non rientra nell’ambito di applicazione dell’articolo 43-bis”, essendo la norma finalizzata a disciplinare l’utilizzo da parte delle piattaforme di contenuti di informazione i cui diritti appartengono agli editori.
La base di calcolo e i criteri di misurazione dell’equo compenso
E proprio dal value gap e dalla sua possibile valorizzazione che occorre partire per affrontare il vero nocciolo della questione, riguardante il capo II art 4, relativo ai criteri per la determinazione dell’equo compenso (al di fuori delle imprese di media monitoring e rassegne stampa, trattate in altra parte del regolamento).
Il divario di cui sopra, come correttamente indicato dall’Autorità, ha come base di calcolo i ricavi pubblicitari del prestatore derivanti dall’utilizzo delle pubblicazioni di carattere giornalistico dell’editore, gli unici in qualche modo misurabili, a cui andranno sottratti i benefici economici derivanti all’editore dai servizi del prestatore sulla base di criteri che nella proposta iniziale erano stati individuati ma poi tutti inseriti tra i criteri per determinare l’aliquota (e che sarebbero probabilmente stati determinati per compensazione).
In questo modo sarebbe stato possibile determinare, seppur con qualche oggettiva difficoltà legata alla mancanza di un condiviso sistema di allocazione dei ricavi pubblicitari delle piattaforme, proprio il value gap / equo compenso, cioè la somma che ciascun prestatore/piattaforma avrebbe messo a disposizione dell’intera platea degli editori aventi diritto e da ripartire poi direttamente tra questi in base all’incidenza dei diversi criteri di riferimento.
Il tutto tenendo conto dei meccanismi di funzionamento dei servizi del prestatore e del relativo modello di business (aggregatori di notizie, motori di ricerca e social media si basano, come precisato dall’Autorità, su un diverso modello di business e soprattutto nell’ultimo caso la rilevanza dei contenuti soggetti a equo compenso è meno rilevante e parzialmente sostituibile con altri contenuti).
L’Autorità, rispetto alla proposta iniziale, accoglie nel regolamento almeno in parte questa diversa impostazione, inserendo (e sottraendo) dalla base di calcolo uno dei criteri in precedenza usati per la determinazione dell’equo compenso (e relativa aliquota), ma si “dimentica” di sottrarre ulteriori elementi a favore del prestatore quali i costi comprovati sostenuti dal prestatore per investimenti tecnologici e infrastrutturali e l’adesione e conformità, del prestatore, a codici di condotta, codici etici e standard internazionali in materia di qualità dell’informazione e di fact-checking.
In questo modo però l’Autorità è costretta a tornare al meccanismo dell’aliquota, mantenendo un meccanismo che in ragione della complessità d’implementazione e della sua rigidità, mal si concilia con le diverse tipologie di prestatori ed editori coinvolti (one size doesn’t fit all), sia per le difficoltà pratiche di applicazione del modello connesse ai diversi meccanismi di funzionamento dei servizi dei prestatori, sia per gli oneri che potrebbero derivare, in special modo agli editori più piccoli, dall’applicazione di schemi negoziali complicati.
In concreto, si potrebbe determinare una situazione del tutto diversa da quella auspicata dall’Autorità, per cui la scelta di un’aliquota flessibile – fino del 70% della base di calcolo – utilizzata per favorire in primo luogo la negoziazione tra le parti, finisca al contrario per aumentare le possibilità di contenzioso e il ricorso all’Autorità, proprio in virtù della base di calcolo incerta e di un’aliquota non definita ma con aspettative e valorizzazioni diverse delle parti in causa.
Infine, in relazione ai criteri, ricordiamo innanzitutto sinteticamente quelli adottati, in ordine di rilevanza: a) numero di consultazioni online; b) rilevanza dell’editore sul mercato, in termini di audience; c) numero di giornalisti, inquadrati ai sensi di contratti collettivi nazionali di categoria; d) costi comprovati sostenuti dall’editore per investimenti tecnologici e infrastrutturali; e) costi comprovati sostenuti dal prestatore per investimenti tecnologici e infrastrutturali dedicati esclusivamente alla riproduzione e comunicazione delle pubblicazioni di carattere giornalistico diffuse online; f) adesione e conformità, dell’editore e del prestatore, a codici di condotta, codici etici e standard internazionali in materia di qualità dell’informazione e di fact-checking maggiormente riconosciuti; g) anni di attività dell’editore, anche in relazione alla storicità della testata in ambito nazionale e locale.
Anche qui si registrano elementi contraddittori. Tra quelli negativi, oltre al mantenimento dei criteri in capo ai prestatori che, come abbiamo visto, avrebbero dovuto invece essere inseriti e sottratti nella parte relativa alla base di calcolo per l’equo compenso, suscita perplessità l’assegnazione come priorità al numero delle consultazioni online, che senza i necessari contrappesi, rischia di favorire ulteriori pratiche negative, il cosiddetto clickbait, legate a comportamenti opportunistici, come quelle ad esempio di aumentare indiscriminatamente e artificiosamente il numero degli articoli indipendentemente dalla loro necessità, allo scopo di accrescere la remunerazione.
In questo modo si finirebbe per assecondare piuttosto che impedire o limitare, quella tendenza alla riduzione del pluralismo, che nel mondo digitale si manifesta nell’aumento crescente di disinformazione e misinformazione. All’opposto, anche in ragione della natura dell’Autorità chiamata ad operare in questo ambito, tali criteri dovrebbero cercare di valorizzare maggiormente quelle pubblicazioni che si caratterizzano per la diffusione di una informazione qualificata e attendibile, a garanzia e a tutela del pluralismo, come peraltro esplicitato al punto f).
Inoltre, anche altri criteri identificati finiscono per favorire i grandi editori tradizionali sui piccoli, medi e nativi digitali, in particolare l’ultimo, nel momento in cui si tiene conto di parametri quali gli anni di attività, estrapolata da qualsivoglia riferimento al contesto digitale.
Obiettivi e risultati
Ripercorrendo dunque il percorso qui sommariamente descritto, credo che visto da una prospettiva neutrale, ciò che si chiedeva all’Autorità era:
- mettere in moto un meccanismo virtuoso, basato sugli incentivi, che consentisse agli editori più capaci e innovativi di ottenere i maggiori benefici dalle risorse derivanti dell’equo compenso. Questo perché è importante che le risorse disponibili non vadano a remunerare indistintamente tutti, senza alcuna discriminazione legata alla qualità e al merito.
- favorire, nella remunerazione degli editori, coloro che si impegnano maggiormente nella lotta alla disinformazione definendo criteri che, oltre ad evitare l’insorgere di comportamenti opportunistici, premino in concreto quei soggetti economici che si distinguano per un uso corretto dell’informazione e, in questo modo, favoriscano realmente il pluralismo
- tenere conto, anche lato piattaforme, delle differenze e delle peculiarità dei modelli di business di ciascuna, comportando tutto ciò un diverso tipo di relazione tra chi produce la notizia e chi ne consente la più ampia circolazione e conseguentemente un differente divario fra i ricavi conseguiti dai diversi intermediari e il valore riconosciuto ai titolari dei diritti
- ridurre il più possibile il ricorso all’Autorità, favorendo prioritariamente il raggiungimento dell’accordo negoziale tra le parti
Appare difficile affermare che l’attuale regolamento risponda a tutte queste esigenze, al contempo, però, non si può ignorare che dovendo applicare una normativa italiana che nasceva da un recepimento della direttiva europea a nostro avviso non condivisibile, la missione dell’Autorità era molto complicata e difficile da realizzare.
In definitiva, se gli strumenti adottati non sembrano i più efficaci, merita comunque apprezzamento lo sforzo e l’equilibrio manifestati.
(Foto di charlesdeluvio su Unsplash)