L’indifferenza e l’insofferenza nei confronti di Zelensky: fa proseliti l’atteggiamento pilatesco giustamente denunciato, invece, nella vicenda di Messina Denaro. Il commento di Giuseppe De Tomaso
Se non fosse stato Sanremo, sarebbe stato un altro evento. La verità è che più trascorrono i giorni, più diminuiscono in Occidente gli amici dell’Ucraina e i sostenitori del presidente Volodymyr Zelensky. E meno male che i governi d’America e d’Europa non hanno abbandonato gli aggrediti al loro destino. Altrimenti… Ma fino a quando durerà il sostegno militare a Kiev? Fino a quando i governanti occidentali saranno in grado di resistere al pressing “pacifistico” di consistenti settori dell’intellighenzia e dell’opinione pubblica? Che poi significherebbe ratificare la resa ucraina al despota moscovita.
Ecco. Non c’entra il festival di Sanremo in questo mutato atteggiamento italico verso la guerra scatenata dalla Russia contro l’Ucraina. Non c’entra l’esigenza, sottolineata dai più refrattari al telemessaggio di Zelensky, di preservare la rassegna canora dalle ingerenze di tipo politico o, addirittura, geopolitico. Uno, perché Sanremo è anche una gara di ugole. Di fatto, è soprattutto l’autorappresentazione del Belpaese, una sorta di annuale Rapporto Censis modello De Rita in versione musical-televisiva.
Due, perché anche se Sanremo fosse soltanto una sfida tra cantanti, parolieri e orchestrali vari, l’eccezionalità e la drammaticità dei misfatti contro l’Ucraina giustificherebbero e avrebbero più che giustificato l’infrazione alla regola sbandierata, ma sempre infranta, alla linea mai codificata, ma ora emersa, di preservare la purezza, il Dna del festival, la sua vocazione originaria: canzoni e canzoni, presentatori e presentatrici, e poi gossip all’infinito, insomma c’era questo e c’era quello.
In parole povere: se il festival di Sanremo si fosse tenuto sei-sette mesi fa, solo in pochissimi avrebbero avuto da ridire contro la breve partecipazione da remoto del presidente ucraino. Siccome, invece, il festival 2023 coincide, quasi, con il primo anniversario della dell’attacco russo al Paese confinante, e un anno di tempo costituisce un’eternità inaccettabile per gli europei – tra cui gli italiani – non toccati direttamente dalle bombe putiniane, succede che il partito trasversale della pace, pardon della resa, s’allarghi, ogni giorno, con nuovi iscritti, tutti ufficialmente timorosi per il rischio di allargamento del conflitto.
Non sappiamo se è l’opinione pubblica, tendenzialmente votata all’irenismo assoluto, ad ingrossare le vele del partito trasversale della resa, o se è il partito trasversale della resa a ingrossare le vele dell’opinione pubblica. Probabilmente i due fenomeni si sostengono e si nutrono a vicenda, perché entrambi espressioni di una cultura (o sub-cultura) arrendevole, sempre più diffusa, disposta a rinunciare alla lotta, fosse pure per la propria libertà. Più diminuiscono, per ragioni naturali, le testimonianze dirette dei sopravvissuti all’Olocausto e alla seconda guerra mondiale in genere, più si attenuano il ricordo e il monito da trasmettere alle nuove generazioni; più si allunga la distanza temporale dai combattimenti che, per 6 anni, devastarono l’intera Europa, più s’indebolisce l’indignazione stessa sulle cause che scatenarono la più immane tragedia umana vissuta sul pianeta.
Non è in corso, davanti all’opinione pubblica, un derby tra Marte e Venere, tra chi manifesta per la guerra e chi sfila per la pace. Non è in corso perché una fetta sempre più cospicua della popolazione preferisce la strategia dell’astensione, come, del resto, fa in misura crescente, in occasione di ogni appuntamento elettorale. È la strategia dell’astensione la linea montante, forse maggioritaria, in Occidente e in Italia in particolare. È la strategia di chi non si schiera e non vuole schierarsi, nella convinzione che, così facendo, lui si salverà e incasserà il dividendo della pace, anche perché un giorno o l’altro i belligeranti dovranno pure deporre le armi.
Né provoca riflessioni correttive il fatto che la neutralità assoluta, ossia l’astensione elevata a criterio inderogabile, non comporti mai equidistanza o equivicinanza verso le parti in causa. In realtà, la scelta dell’astensione da parte degli spettatori o dei vicini di casa (come avviene per lo scontro Russia-Ucraina) contribuisce ad allungare la già interminabile lista degli eventi travolti e stravolti dall’eterogenesi dei fini, o per dirla con l’economista Friedrich von Hayek, contribuisce ad arricchire la casistica dei fini intenzionali sfociati in conseguenze inintenzionali. Avendo rimosso dal proprio orizzonte linguistico e mentale la parola, l’idea, l’ipotesi stessa di una guerra tra stati a poca distanza dalle loro frontiere, diventa quasi inevitabile che gli europei e gli italiani, vedi il caso Sanremo-Zelensky, tradiscano un malcelato fastidio per i duellanti in campo, anche se e quando a chiedere soccorso e solidarietà è il lottatore più gracile, quello assalito dal più forte, quello provvisto di buone ragioni, per la propria causa, anche per il diritto internazionale e per la verità storica dei fatti.
Certo, desta scalpore, e un po’ di sgomento, questa constatazione. In molti, nei giorni scorsi, hanno denunciato i danni provocati dall’indifferenza, se non dalla complicità, di quella popolazione siciliana che ha facilitato la trentennale latitanza di Matteo Messina Denaro. Stranamente lo stesso atteggiamento pilatesco viene invocato nel caso dello scontro bellico Putin-Zelensky, non distinguendo il buono dal cattivo. Ci si dimentica che i princìpi sono valori non negoziabili, perché figli della legge naturale che riconosce il diritto-dovere all’autodifesa. Anche quando l’autodifesa chiede di farsi sentire su un palcoscenico insolito, che tanto strano e singolare non è, dal momento che Sanremo è l’Italia, non una canzone.