La Forma del desiderio è il titolo dell’edizione in corso della Scuola sulla Complessità che dà il nome all’iniziativa organizzata assieme al Centro Studi Americani ed è il filo conduttore degli incontri. Ecco di cosa si è parlato durante il secondo incontro, dedicato alla meraviglia. Ne scrivono Pietro Federico, poeta e Michele Gerace, avvocato e fondatore della Scuola sulla Complessità
Come nei romanzi di appendice riprendiamo da dove ci siamo lasciati nell’articolo che ha preso spunto dal primo incontro al quale rinviamo anche per la contestualizzazione e la descrizione dell’iniziativa. La tecnologia e il nostro rapporto con la tecnologia, intesi come capacità di domandarci del perché e del per come delle cose e di come funzionano, non è solo condizione del nostro essere umani e del modo in cui conviviamo gli uni assieme agli altri nel mondo, ma è anche un nostro elemento costitutivo.
Nel precedente articolo abbiamo scritto di come la forma del desiderio, il desiderio, il desiderare stesso, sia hardware, software e proxy del nostro stesso essere umani. La forma del nostro desiderio intesa come la natura del nostro nascere e divenire essere umani è da principio relazione e creazione, participio futuro del verbo nascere, venire al mondo, stabilire una legge di convivenza, pensare alla sopravvivenza e a un modo dignitoso di vivere oscillando tra bisogni, necessità e desideri.
Una volta che abbiamo iniziato a comprendere il desiderio in funzione del nostro stesso essere umani è opportuno domandarci da dove origina, stante la circostanza che nasce laddove è possibile rappresentarsi un oggetto del desiderio per darsi una direzione e un fine sia pure gratuito. In questo senso, il desiderio, l’oggetto del desiderio, gli oggetti dei desideri, i desideri in generale, debbono aprirsi a un conflitto (“Conflitto” è il prossimo incontro dell’iniziativa) che si compone se ammettiamo la possibilità dell’esistenza di diversi desideri.
Allora il conflitto diventa confronto, convergenza, allineamento dei desideri, armonia che si compone, che trae i suoi nutrienti da un terreno culturale comune, da un potersi figurare un pronome, il “noi”, che è plurale, e dal proiettare questa pluralità verso un orizzonte. Per chiarezza di chi legge, dichiariamo subito che in questo articolo, tenendo sotto traccia considerazioni neuroscientifiche di carattere cognitivo che potremmo riferire agli studi di Michael Tomasiello, seguiamo una prospettiva poetica e filosofica, etica e politica.
Manifestiamo ammirazione ogni qualvolta davanti ai nostri occhi, o esposta ai nostri sensi, la percezione della sorpresa, la meraviglia, suscita una emozione che elaboriamo a partire da un terreno culturale comune dato dal nostro modo di conoscere, di pensare, di fare e di esprimerci, al nostro modo di dire, di articolare suoni e parole, segni espressivi non verbali e verbali.
Tuttavia, pur essendo la nostra capacità di meravigliarci in buona parte influenzata dal nostro contesto culturale e sociale, essa porta con sé anche un elemento che, potremmo dire, trascende quel contesto e, di conseguenza, trascende anche tutti i desideri legati a un oggetto già figurato nella nostra mente. La meraviglia è quel momento in cui il mondo e la nostra vita diventano per noi realtà che non riusciamo più né a definire né a nominare, e che, proprio per questo, ci segna al di là di qualsiasi altro desiderio figurabile. In primo luogo, nella meraviglia l’umano e la realtà si rivelano come qualcosa di troppo vasto per poter essere afferrato, chiuso in una definizione. In secondo luogo essa “stana” un desiderio che va oltre qualsiasi altro desiderio.
Ed è questo desiderio che, osiamo dire, segna la vera altezza dell’umano e ci manifesta la nostra vera natura. In altre parole è nella meraviglia e in questo desiderio assoluto e di assoluto (Giacomo Leopardi lo chiamerebbe “infinito”) che l’uomo comprende che il suo essere, che il suo senso non può esaurirsi nella somma degli eventi passati che lo hanno portato al presente o anche alla somma di tutti i suoi desideri, siano essi di natura materiale, relazionale o spirituale.
A quel punto l’idea che ci facciamo rispetto, o meglio, in relazione a chi e cosa abbiamo davanti e intorno, quale che sia il regno umano, animale o vegetale di appartenenza, non potrà più prescindere da questa rivelazione, dalla consapevolezza di questo elemento infinito e ultimamente indefinibile.
Ed è in questa coscienza che si radica l’immensa e sempre inesauribile funzione del linguaggio. Inesauribile perché tentativo di cogliere il nucleo inesauribile dell’umano e della realtà. Ed è affascinante notare come, benché il primo istante di reazione alla meraviglia sia la bocca aperta, il silenzio, l’istante successivo si colmi immediatamente di un desiderio che preferiamo chiamare di battesimo, invece che di definizione; cioè il desiderio di nominare la realtà così che essa “resti in quella dinamica di apertura” che abbiamo vissuto nel corso di quell’esperienza; in altre parole, il desiderio di trovare una parola che custodisca il nesso con l’infinito che ha dato vita a quell’esperienza. È così che nasce, ad esempio, la poesia.
E questo è facilmente riscontrabile: anche laddove riteniamo di non poter conoscere in profondità l’essenza di qualcuno o qualcosa, siamo in grado naturalmente di esserne in qualche misura influenzati, comunque toccati, meravigliati. Quando l’ammirazione suscita una emozione, l’emozione prima ancora di aprire al sentimento, alla conoscenza, prima ancora di farne una esperienza, diventa espressione visiva, fonetica, lascia un segno con il quale siamo all’origine del linguaggio: iniziare a dire una cosa, a dare un nome alle cose, significa fin dai tempi di Platone e Aristotele, indicarle e conoscerle.
La meraviglia, come una random access memory, cioè una memoria ad accesso casuale (RAM, volendo proseguire nella metafora tecnologica del precedente articolo), interroga la memoria e radica la passione per qualcosa di insolito, di inspiegabile, di nuovo, non ancora processato dal microprocessore (chip), non ancora razionalizzato in funzione di un bisogno, di una necessità o ad una convenienza specifici. È una presa di coscienza di qualcosa che per il momento sfugge alla ragione come sfugge al solo intelletto la stessa finalità della natura che per Immanuel Kant non può essere scrutata dal solo intelletto. La meraviglia provoca una emozione irrazionale che ci spinge ad andare alla ricerca di una spiegazione razionale, appassionata e ragionevolmente piena di dubbi.
Dove il desiderio è di per se stesso principio di movimento, la meraviglia ne rappresenta lo svolgimento: il divenire che per Søren Kierkegaard è “un sentimento appassionato del divenire”, un segno di incertezza, imprevedibilità del futuro rispetto allo svolgersi del passato e al presente. Incertezza, scrive lo stesso Kierkegaard, di ciò che è sicuramente divenuto. Nel divenire ci sono tutte le possibilità, la potenza (il quarto ed ultimo incontro dell’iniziativa è sul “Potere”), il potere che – prima ancora che inteso nei termini genealogici della macro e microsovrastruttura proposti da Michel Focault – esprime in principio consapevolezza della possibilità di movimento, la libertà di desiderare e il desiderio di essere, voglia di muovere il primo passo e poi gli altri ancora.
La domanda di senso a questo punto è in che modo il fenomeno tecnologico impatta sulla nostra capacità di meravigliarci. La tecnologia può aumentare la nostra esposizione alla meraviglia quando accresce la sensibilità, la capacità di renderci conto, di accorgerci, di prestare attenzione, di curarci dell’ambiente circostante e di chi lo popola. In questo modo la tecnologia può essere un meraviglioso amplificatore. Al contrario se la tecnologia diventa assopimento, ottundimento, quando contribuisce in modo significativo ad abbassare la stessa capacità di desiderare, con essa viene attutita, ottusa, la nostra capacità di meravigliarci, di vedere, di renderci conto di ciò che ci sta davanti agli occhi: il vecchio e il nuovo diventano uguali, non c’è più differenza tra quello che conosciamo e quello che non conosciamo, si azzera la possibilità di movimento, della forma specifica e unica del nostro essere umani, praticamente, il potenziale trasformativo del nostro rapporto in relazione agli altri e alla società.
La tecnologia che aumenta la nostra capacità di renderci conto, di esporci a quello che per i greci era lo thauma, l’angosciato stupore, o terpeir, gioia e ricchezza dell’essere, è una tecnologia che ci aiuta a vedere il mondo più chiaramente, con i colori più vividi, quando abbiamo la vista stanca o non ci riusciamo ad occhio nudo, a distinguere il vecchio dal nuovo. La tecnologia può sostenere il divenire e la crescita del nostro essere umani – scrivevamo nel precedente articolo – può connetterci e, se “utilizzata” nel modo giusto, metterci in relazione gli uni con gli altri.
Entrando in relazione con gli altri, uscendo fuori di noi stessi e rientrando in noi stessi, la nostra natura, il conflitto che dobbiamo comporre per allineare le nostre prospettive verso un comune orizzonte partendo da un terreno culturale comune, l’espressione di potere, potenza e possibilità di un mutamento, di un potenziale trasformativo nella società, ritrovano nella meraviglia l’apertura ad una emozione cui segue l’elaborazione di un sentimento di amor di sé che è diverso dall’amor proprio. Se l’amor proprio esaurisce in se stesso l’unico oggetto, l’unico fine, e quindi ha bisogno, ha necessità di nutrire solo se stesso, dall’altra parte l’amore di sé è nel segno dell’apertura, è un amore che non si esaurisce in un bisogno autoreferenziato, ma è una ricerca ancora una volta di un amore estroverso.
Potremmo riformulare dicendo anche che, proprio nel riconoscimento di quell’elemento ultimo e assoluto e comune, sta la possibilità di riconoscersi ultimamente “uguali”, assolutamente fratelli, non solo in termini umani. In questa consapevolezza, in un certo senso anche in questa “tristezza” che è il “desiderio incontentabile, indomabile” scatta la scintilla di una concezione di sé che esplode verso l’orizzonte senza più frammentarsi e finisce con l’abbracciare il cosmo. “Fratello sole, sorella luna” diceva San Francesco, il primo poeta della letteratura italiana.
È l’idea, la coscienza, la consapevolezza che si può amare qualcosa fuori di sé come se stessi e la meraviglia è l’atto primo, originario, dell’amore, del desiderio che eccede la nostra stessa dimensione, che pone in relazione la terra con il cielo, che trova nel desiderio di essere un desiderio trascendente che va oltre il nostro stesso essere umani, e che su questa ricerca fonda la possibilità di tenere la giusta postura, di resistere a forze contrarie, di guardare davanti a noi verso l’orizzonte, di guardare in alto e darci una direzione verso un futuro ancora ignoto, insondabile, pieno di crisi e possibilità, per questo e per definizione, meraviglioso e appassionante. Di nuovo e insieme, principio di movimento e divenire, concreto svolgimento e progresso del nostro essere umani insieme agli altri nel mondo.