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E se Steph Curry fosse il nipotino di Hobbes? Scrive l’avv. Russo

Di Vittorio Russo

La teoria dell’evoluzionismo dello sport contemporaneo tra economia, diritto e società. L’intervento di Vittorio Russo, avvocato esperto di Diritto sportivo

In principio furono Delibašić, Kićanović, Dalipagić e Slavnic, telecomandati da quel satanasso di Bosha Tanjevic che verso la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80 dalle vette dei Balcani stupirono il mondo lanciando una rivoluzionaria dottrina filosofica della pallacanestro: il corri e tira. Alza il ritmo, muoviti senza palla, ruota senza sosta, ricevi “dal blocco”, mira e fai fuoco da più lontano possibile! Se sei preciso le difese avversarie non ti possono mai fermare. In termini di strategia tattica cestistica fu una innovazione così devastante da squarciare la spessa cortina di ferro tra l’Occidente e il blocco sovietico. Confine che segnava una profonda diversità di weltanschauung tra sport professionistico e non, oltreché politica, socioculturale ed economica.

Ai maestri americani non andò giù, l’Nba introdusse immediatamente la regola del tiro da 3. Chi ne è capace di infilzare il “cestino” da più lontano deve essere premiato, si sancì. La Fiba le corse dietro. Ma chi se ne giovò furono ancora loro, gli slavi che nelle loro mani avevano “la misura” che altri non pensavano di avere. Ne sono scaturite generazione di “cecchini dalle dita fatate”. A cominciare dai fenomenali Petrovic, Kukoc, Paspalj e Divac (il primo uomo di 2.20 mt della storia a tirare bene dalla lunga distanza) negli anni ’80 fino alla disgregazione politica Jugoslava. Poi la “scuola” era ben avviata e ci sono stati i Djordjevic, i Danilovic, i Bodiroga ed altri nel corso dei decenni fino al golem attuale, Doncic. Siamo di fronte ad una prerogativa di talento “artistico” esclusiva dei cestisti slavi hanno ipotizzato gli esperti nel corso dei decenni? Nessuno ne ha certezza, nessuno lo può sapere. O forse no, una possibile spiegazione ci sarebbe. E la lettura “evoluzionistica” ce la propone proprio uno dei protagonisti più assoluti di quella stirpe di fuoriclasse: Drazen Petrovic, il “diavolo di Sebenico”.

In una intervista sulla sua vita pre-professionistica che rilasciò su una emittente americana poco prima della sua prematura e tragica fine ad appena 29 primavere: “Non avevamo nulla, non sapevamo come trascorrere le giornate. Era freddissimo, ci chiudevamo nelle piccole palestre con i canestri sgangherati delle scuole della Jugoslavia di Tito e si faceva a gara a chi segnava da più lontano”. Il corri e tira forse nasce da lì, per scappare da un regime repressivo e sfuggire al vuoto cosmico dell’egualitarismo comunista. Il tabellone traballante ne era l’unica via di fuga.

Questa occasione di riflessione ne induce altre ben più corpose che travalicano il dibattito storico e politico. Che la condizione socioeconomica di un Paese, nonché la forza della tradizione, abbia l’energia di incidere (ciclicamente) sulle potenzialità sportive di un determinato popolo è opinione consolidata. Ora la domanda da porci è ben più sottile ed “a meccanismo inverso”: può la mentalità dominante della società di relativa appartenenza (nel contesto epocale) influenzare la natura stessa di uno sport e le sue regole, le dinamiche finanziarie che ne sono alla base? Modificarne le caratteristiche genetiche e strutturali?

A quanto pare si. E anche in questo caso plasticamente ci viene in soccorso il basket per provare a fornire risposte pertinenti sul tema. E lo facciamo senza spezzare il “filo della retina” del canestro.

Siamo nella famosa stagione 1979-80 (quella dei prestigiosi esordi di Larry Bird e Magic Johnson) quando fu introdotto nella Nba il tiro da tre punti ad una distanza di 7,25 mt (6.75 mt negli angoli) dal ferro. Per i primi anni la tripla non riscosse grosso entusiasmo tra gli appassionati. Il New York Times la definì più volte un “trucco” e diversi allenatori ne parlarono come qualcosa di poco utile. L’allora coach dei Phoenix Suns, John LacLeod, disse: “Potrebbe cambiare il nostro gioco alla fine dei quarti ma non ho intenzione di pensare a degli schemi apposta per tirare da sette metri. Penso che sarebbe un basket molto noioso”. Il presidente dei Boston Celtics, il celebre Red Auerbach, sosteneva che la sua squadra non ne aveva bisogno e teorizzò che la ragione dietro all’introduzione del tiro da tre punti fosse “la diffusione del panico nelle televisioni per i brutti ascolti” delle partite.

Allenatori stratosferici come Pat Riley o Phil Jackson che hanno fatto la leggenda di questo sport se ne sono serviti con moderazione parsimoniosa.

Per 30 anni si è andati avanti su questa falsariga concettuale e si è giocato ricorrendo al tiro da “fuori l’arco” solo in presenza di 2 fattori: avere in squadra giocatori dotati nel tiro dalla lunga distanza e situazioni di necessità di punteggio.

Dieci anni fa, circa, tutto è cambiato. Il tiro da tre punti è diventato l’essenza stessa del gioco. La caratteristica peculiare di ogni singolo attacco, il fine ultimo di ogni schema offensivo, indipendentemente dalla presenza o meno di specialisti nella conclusione da fuori. Cosa ha determinato questa metamorfosi nel pensiero degli addetti ai lavori?
La forza dell’ideologia culturale imperante. Nell’ultimo decennio lo spirito della razionalizzazione delle risorse, tipico del pensiero storico anglosassone, è tornato prepotentemente alla ribalta. Negli States gli analisti economici, gli esperti di legislazioni del welfare e della public administration, gli operatori del settore finanziario ed energetico da qualche tempo tendono ad massimizzare in ogni salsa mediatica l’idea tassativa della sostenibilità e dell’efficientamento dei costi, della produttività e dei mezzi.

Gli osservatori della sociologia della comunicazione hanno spiegato il fenomeno sostenendo che è semplicemente ritornato attuale il vecchio schema economico del pragmatismo americano di fine ‘800. Quell’ideologia, (legata cromosomicamente al razionalismo inglese di qualche secolo addietro elaborata dal tridente Hobbes, Locke, Hume nelle diverse declinazioni dell’empirismo e del naturalismo) in sintesi, concepisce il pensiero, non come una passiva contemplazione di una verità già prestabilita o una altrettanto inerte ricezione di dati sensibili provenienti dall’esterno, ma come un processo di intervento attivo sulla realtà. In questa prospettiva generale, il pragmatismo si configurava, con Charles Sanders Peirce, come teoria del significato e identificava il significato di un’espressione con l’insieme delle conseguenze pratiche che derivano dalla sua accettazione; oppure esso diventa, con William James e John Dewey, una teoria della verità e tendeva a identificare la verità con l’utilità pratica.

L’ondata di neorazionalismo negli ultimi anni si è evidenziata con il dato statistico che sempre più alto è il numero degli studiosi americani premiati con il Nobel nelle discipline scientifiche dell’economia e della matematica, insigniti per i loro studi su alcune delle questioni più urgenti del nostro tempo, cioè sul come combinare una crescita sostenibile a lungo termine dell’economia globale con il benessere della popolazione: la quintessenza del pragmatismo o neoutilitarismo reale.

La coniugazione sistemica di questo nuovo verbo ha invaso ogni disciplina sociale. Poteva mancare nella nostra epoca la tracimazione in una struttura così permeabile ai fattori di massa come lo sport? La risposta è no.
Il basket non fa eccezione. Gli atleti che oggi calcano i parquet sono mediamente più possenti fisicamente, i ritmi sono più sostenuti e il numero dei “possessi palla” è sensibilmente più elevato rispetto anche solo a una decade fa. La velocizzazione del gioco ha convinto le squadre Nba (e dopo qualche anno tutte le Fiba) a organizzare un numero sempre più alto di attacchi attraverso giochi a metà campo brevi e che si consumano ben prima dello scadere dei 24 secondi. Soluzioni rapide significano più isolamenti, più pick and roll, più uscite dai blocchi nella parte iniziale dell’azione, tutte scelte tattiche che spesso si concludono con un tiro da tre punti. E sapete perché? Perché è puramente efficiente dal punto di vista matematico e decisamente conveniente nell’economia (statistica) del punteggio per ciò che concerne la “produzione” offensiva.

In altre parole gli allenatori hanno cominciato a ragionare esclusivamente in termini algebrici e non più solo tecnici. Hanno considerato la differente economicità che intercorre tra una scelta di tiro e l’altra. In media, una conclusione presa tra i 2.5 metri e la linea da tre produce 0.80 punti, mentre un tentativo scagliato da oltre l’arco ne genera 1.1. In buona sostanza questo significa che statisticamente un tiro da tre ha una resa (di efficienza produttiva) maggiore rispetto a un tiro preso dalla media distanza. Gli allenatori moderni ne sono consapevoli e cercano di sfruttarlo a proprio vantaggio, adeguando le caratteristiche della propria squadra al servizio del gioco perimetrale.
I promotori e sostenitori di questa nuova corrente di pensiero “economico” (tra loro si distingue Daryl Morey, attuale presidente dei Philadelphia 76ers, che è fermamente convinto che il tiro da 3 punti sia un’arma così vantaggiosa che dovrebbe valere 2,5 punti anziché 3) partono dall’assunto inoppugnabile (ma solo perché rispettoso dei dogmi matematici) che se si segnasse il 33% dei tiri da 3 punti, equivarrebbe a segnare il 50% dei tiri da 2 punti. Cioè 1 punto per tiro. Ma il punto extra che si guadagna da dietro l’arco dà molti più incentivi a cercare quella soluzione. Se ci sono voluti più di 30 anni affinché la Nba realizzasse questo studio è esclusivamente perché questa società è semplicemente più “pronta” e predisposta alla ricezioni di tali postulati scientifici rispetto ai decenni passati.

Anche il diritto ne ha risentito. Le norme e i regolamenti in fatto di salary cup, salary floor e draft sono state rese ancor più intransigenti onde evitare “disavanzi” di produttività e squilibri di efficienza nei bilanci societari ( e dell’intera Lega in termini di prodotto mondiale marketing).

Salary Cap significa tetto salariale ed è la somma di denaro di cui ogni società dispone per pagare gli stipendi dei giocatori in roster. Questa cifra, che cambia di poco da squadra a squadra, permette che non ci sia un grosso squilibrio tra le franchigie; in questo modo, almeno in teoria, le squadre più blasonate non sono avvantaggiate rispetto ai team più “piccoli”.

Ogni anno viene stabilito un nuovo tetto massimo basandosi sui guadagni della stagione precedente e sul Collective Bargaging Agreement che è un contratto che viene stipulato tra i giocatori e la dirigenza Nba e stabilisce delle regole precise sull’ammontare del tetto salariale, sullo stipendio minimo e sui contratti dei Free agent (gli svincolati).
Rispetto ad altre leghe come Nfl, Mlb, Nhl e Mls, in Nba fino a qualche anno fa si parlava di Soft Cap, in quanto esisteva la possibilità di sforarlo prima di incorrere in sanzioni. Nel 2022/23 la Luxury Tax Line, ovvero la soglia oltre cui scatta la multa, è la più bassa di sempre.

La sanzione è definita Luxury Tax e prevede una multa incrementale in base all’entità dello sforamento e il blocco del mercato in casi estremi (Luxury Tax Apron).

Il Salary Floor, invece, è un limite minimo del monte ingaggi che ogni squadra è obbligata a raggiungere per partecipare al campionato Nba In sostanza ogni franchigia deve garantire di spendere una somma minima in ingaggi, che è definita nel 90% del Salary Cap. In caso di mancato raggiungimento del Floor, la squadra viene obbligata a distribuire il disavanzo ai giocatori in roster.

Abbiamo raggiunto il point break dell’inoppugnabilità scientifica in un campo da basket? Siamo in presenza di un testo sacro su cui non ha senso controvertere? E invece no. Studiando più a fondo si può notare come il tiro da 3 punti non sia l’opzione suprema ma una “meccanica agonistica” perfettamente proporzionata all’interno delle dinamiche di gioco della pallacanestro. E, udite udite, per la dimostrazione di questa tesi vengono in soccorso i numeri.

Negli ultimi 20 anni, la media di tiri da 3 punti tentati in una partita è passata da 15 a 35. Tuttavia però la percentuale di realizzazione è rimasta pressoché la stessa, nonostante la quasi ossessiva attenzione che viene riservata a questo fondamentale. Come è possibile che la percentuale di realizzazione non sia aumentata? Diminuendo nel contempo la qualità del gioco e facendo meno spettacolo, essendoci più tiri sbagliati.

Sembra quasi che coloro che introdussero la linea da 3 (sperimentalmente) nel lontano 1961 sapessero perfettamente quale fosse la distanza perfetta affinché questo tiro diventasse vantaggioso da prendere, ma non così tanto da creare uno squilibrio nel gioco. In realtà non lo sapevano, lo fecero senza alcun fondamento scientifico, ma parole loro: “Per nuove e interessanti possibilità all’interno del gioco”.

Inoltre, è altrettanto interessante notare come, invece, di converso riflesso, sia stato proprio il tiro da 2 punti ad aumentare la sua percentuale di realizzazione. Questo perché le squadre sono diventate compulsive nel tiro dalla lunga distanza, a tal punto che tutti gli altri tiri a disposizione iniziano ad essere più facili da prendere, poiché le difese aggrediscono i tiratori ben oltre la fatidica linea, lasciando sguarnite linee di passaggio, penetrazioni one to one, coast to coast, alley-oop assolutamente impensabili solo 10 anni fa.

Ecco perché il tiro da 3 punti non è la soluzione ideale ma una delle scelte in un sistema perfettamente bilanciato di opzioni realizzative (e dunque matematiche). Nel momento in cui una squadra è estremamente forte oltre l’arco, la difesa concentrerà il suo piano tattico per limitare il più possibile le soluzioni da 3 punti, a costo di lasciare maggiori spazi “nel pitturato”. Viceversa, se non si è al cospetto di una squadra che fa del tiro da 3 il suo punto di forza, si potranno concedere maggiori libertà al tiro esterno perché, per chi lo utilizza, non rappresenta un vantaggio concreto e al contempo non permettere punti facili sotto canestro.

Alla fine, quindi, l’unico criterio che fa la differenza sembrerebbe essere la cara vecchia immarcescibile qualità del tiro, che negli ultimi 20 anni è rimasta la stessa, ovvero produttiva di 1 punto di media per tentativo.

Chi sostiene che il tiro da 3 punti rappresenti un enorme beneficio/progresso all’interno del gioco della pallacanestro, dovrà ricredersi, perché, notizia di pochi giorni fa, per la prima volta negli ultimi 40 anni, le squadre Nba dall’inizio della stagione 2022-23 sono state talmente efficienti al tiro da 2 punti che provare a far punti attraverso questo fondamentale ha assunto maggiore valore numerico e più “vantaggio razionale” che tentare un tiro da 3 punti.

In conclusione, malgrado sia una flebile voce in una sparuta minoranza di appassionati, mi piace pensare che tutto l’architrave della “Teoria evoluzionistica dello sport” faccia parte solo dei processi fisiologici del tempo e dei “cicli della storia” ma che non abbia nulla a che spartire col cuore e col talento individuale degli atleti in campo. Quelli e solo quelli fanno la differenza nello sport. Mi conquisterebbe avere una macchina del tempo per tornare agli anni di Hobbes, Locke e Hume e allietarli con i video dei loro “pronipoti” Steph Curry, Lebron James e Kevin Durant. Sono sicuro che ne sarebbero estasiati, ma certamente non per una questione filosofica. Anche se probabilmente si emozionerebbero ancor di più a veder giocare quella favolosa squadra di incantatori slavi che circa 40 anni fa correva e tirava verso la libertà.

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