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Strategia ed effetti, su Pil e non solo, delle mosse Bce contro l’inflazione

Di Domenico Mastrolitto e Giovanni Scanagatta

Rimane l’interrogativo di fondo sul perché dell’accelerazione restrittiva della politica monetaria della Bce, dopo un avvio molto cauto nel rialzo dei tassi interesse all’avvio del processo inflazionistico. Le risposte di Domenico Mastrolitto, direttore Generale Campus Bio-Medico SpA e Giovanni Scanagatta, docente UnitelmaSapienza, Roma

I recenti aumenti dei tassi di interesse della Banca centrale europea (Bce) indicano che la politica monetaria è diventata particolarmente restrittiva. All’inizio del processo inflazionistico, un paio di anni fa, dovuto alle politiche fortemente espansive messe in atto per reagire agli effetti depressivi generati dalla pandemia, la Bce si era mostrata molto cauta con aumenti modesti e differiti nel tempo dei tassi di interesse, soprattutto nei confronti della Federal Reserve americana.

Il comportamento attendista è stato motivato dalla convinzione che il rientro in un range accettabile dell’inflazione sarebbe avvenuto in tempi abbastanza brevi alla luce anche di una differenziazione qualitativa e quantitativa degli stimoli monetari e della domanda in Europa e negli Stati Uniti d’America.

Con gli ultimi aumenti dei tassi di interesse e con quelli annunciati, la Bce ha preso atto che la crescita inflativa sarebbe stata accresciuta dall’esplosione dei costi dell’energia. Ha quindi adottato una politica monetaria mirata a ridurre la massa monetaria per indurre una contrazione della domanda e per abbattere drasticamente l’inflazione.

L’aumento dei tassi di interesse concorre certamente a frenare la domanda dei beni di consumo e dei beni di investimento, e provoca indubbi effetti negativi sul Prodotto interno lordo.

Dopo una crescita del prodotto in termini reali intorno al 7% nel 2021, del 4% nel 2022, si prevede per l’Italia una caduta allo 0,6% nel 2023.

I salari e la produttività nel nostro Paese ristagnano da tempo. La quota dei salari sul prodotto interno lordo è da due decenni molto bassa in Italia rispetto soprattutto alla Germania e alla Francia. L’inflazione ha un effetto derivato inevitabile: deprime ulteriormente i salari e la domanda, con effetti negativi sulla crescita. Siamo in presenza di una situazione opposta a quella che abbiamo vissuto negli anni ’80 in cui la scala mobile proteggeva il potere d’acquisto dei salari e concorreva ad attivare una inevitabile rincorsa tra prezzi e salari.

Fu inevitabile introdurre un calmiere alla spirale inflazionistica attraverso la predeterminazione dei punti di scala mobile sulla base della proposta Tarantelli che contribuì ad attenuare il processo inflazionistico senza tuttavia eliminarlo.

Si pervenne alla fine alla eliminazione della scala mobile attraverso meccanismi di concertazione con il sindacato finalizzati anche al recupero di produttività.

L’attuale caduta della crescita collegata alla più generale crisi geopolitica, alla guerra in Ucraina ed alla economia di guerra innescata dal rialzo delle quotazioni di gas e petrolio, è sostenuta anche dall’aumento dei tassi di interesse frutto della politica monetaria particolarmente restrittiva della Bce.

Ne deriva un forte aggravio della nostra situazione sul fronte dell’elevato debito pubblico, con crescenti difficoltà sia sul piano del servizio per interessi che per il suo rientro.

La situazione che si è così determinata comporta l’esigenza di accrescere l’avanzo primario di bilancio, comprimendo la spesa corrente senza sacrificare quella per investimento che favorisce la crescita. Da questo punto di vista, dobbiamo assolutamente utilizzare nel modo più efficace possibile le risorse del Pnrr, realizzando nei tempi stabiliti i numerosi progetti, riguardanti soprattutto la transizione ecologica e la transizione digitale.

Non va anche dimenticato che l’aumento dei tassi di interesse determina una crescita delle rate per l’ammortamento dei mutui immobiliari e che rimangono meno risorse per i consumi con l’inevitabile effetto di fare cadere la domanda di beni e servizi.

Rimane l’interrogativo di fondo sul perché dell’accelerazione restrittiva della politica monetaria della Bce, dopo un avvio molto cauto nel rialzo dei tassi interesse all’avvio del processo inflazionistico.

La prima risposta è di tipo generale. La Bce ha dovuto agire di concerto con le decisioni della Federal Reserve Usa, ha dovuto occuparsi sia della politica monetaria europea sia del cambio euro/dollaro. Obiettivo fondamentale della Bce è, infatti, quello della protezione del potere d’acquisto della moneta.

Gli inevitabili effetti sul Pil comportano l’adozione di politiche economiche di competenza della Ue e dei singoli Stati membri.

Tassi di inflazione superiori al 10% sono certamente preoccupanti, a fronte di un’inflazione target intorno al 2%. La Bce ha infatti annunciato di volere riportare su questo livello il tasso di inflazione in tempi abbastanza brevi, e ciò non sarà né facile né indolore.

Un secondo motivo, altrettanto importante, riguarda la preoccupazione della Bce sul fatto che l’inflazione misurata dai prezzi al consumo non rispecchia totalmente l’inflazione effettiva del sistema. È un problema che è già presente nelle analisi del Bollettino economico della Bce con riferimento ai prezzi dei materiali per l’edilizia (ferro, acciaio, legno, piastrelle, ecc.). Un confronto tra l’andamento dell’inflazione al consumo, indicatore per la politica monetaria della Bce, e quella misurata dall’aumento dei prezzi dei materiali per l’edilizia indica che mediamente la prima è la metà della seconda e questo certamente preoccupa la Bce. Per non parlare dell’inflazione nascosta al consumo, attraverso la riduzione delle quantità contenute nelle confezioni alimentari (shrinkflation).

Un altro aspetto interessante è il confronto tra l’inflazione e i prezzi dei beni rifugio, a cominciare dall’oro, ma anche dagli immobili. Nell’ultimo anno, il prezzo dell’oro fino in dollari è aumentato del 10% e si prevede una crescita dell’11% nel prossimo. L’oro è una buona difesa contro l’inflazione se si pensa che negli ultimi cinquant’anni il prezzo in dollari del metallo giallo è aumentato in media più dell’8% annuo. Nello stesso periodo, l’inflazione media al consumo degli Stati Uniti d’America è stata inferiore.

L’oro in questi momenti di crisi, ritorna ad essere considerato un rifugio classico  per la diversificazione dei rischi riguardanti la perdita del potere d’acquisto delle diverse attività in cui possono essere investiti i risparmi.

Le banche centrali sono le prime a muoversi in questa direzione, detenendo spesso grandi quantità di oro nelle loro riserve. La loro domanda di oro per le riserve si è accresciuta molto negli ultimi tempi, con un duplice effetto: uno positivo mitigando i rischi di impiego a cui sono sottoposte, ed uno negativo concorrendo a sostenere la domanda di oro con un forte beneficio per il più grande operatore mondiale in questo mercato, la Russia.

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