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Ma la Francia non sta a guardare

Da tempo è in corso uno scontro tra i grandi gruppi europei che hanno colto, nell’apertura imposta dal Trattato di Maastricht, l’occasione per rafforzarsi in Italia. Per le caratteristiche di ricchezza tradizionale delle nostre province centro-settentrionali, per la proiezione internazionale offerta dalla stessa posizione geografica, per la profondità e l’intensità delle relazioni economiche (logistica, subfornitura specialistica, diffusione d’impresa) che articolano le catene del valore sul territorio, l’Italia si presta ad essere campo per un gioco a somma positiva, in cui, a conti fatti, il rafforzamento del capitale europeo negli anni Novanta non è avvenuto a scapito di quello americano, né il secondo ha avuto bisogno di alzare le barricate contro il primo. La migliore rappresentazione di questa lunga contesa economica sullo sfondo della Penisola potrebbe essere quella di una “nuova guerra d’Italia” che rievoca quelle del Cinque-Settecento: non massicce e devastanti invasioni, ma schermaglie, assedi, scambi di piazzeforti con attori cavallereschi, che salvaguardano le fonti della ricchezza dei territori conquistati, cercando di portare dalla propria parte i signorotti locali. Ma l’immagine di un’entente cordiale in cui i vari eserciti economici combattono cooptando le quote del capitale locale non deve far passare in secondo piano il fatto che sempre di guerra si tratta, e che la posta in palio è la terra a più antico lignaggio capitalistico – quell’Italia dove l’economia mercantile è nata, prima di migrare verso Fiandre e Paesi Bassi. Né si deve dimenticare che molte potenze vi hanno partecipato a varie riprese, ma solo una è sempre presente, e fin dai tempi dal Basso Medioevo.
 
Parliamo della Francia, che sembra destinata ad interessarsi in modo permanente alle vicende del potere nella Penisola, a ragione tanto della sua storia politica quanto della stessa geografia. Infatti, da una parte le forme accentrate dello sviluppo della monarchia assoluta la portarono a porsi come potenziale centro aggregatore delle principali correnti regionali della Penisola, già con la spedizione di Carlo VIII nel 1494, che rese evidente il costo del particolarismo delle signorie italiane. Dall’altra parte, quegli interventi erano funzionali all’irradiazione dell’influenza francese secondo relazioni che, prima che dinastiche, erano geopolitiche. E che miravano, attraverso il presidio dei varchi alpini occidentali, all’esercizio di un’influenza determinante sul resto della Penisola a sud del bacino padano a partire dalla diagonale del Ticino, sul cui odierno perno logistico di Malpensa ancora oggi sono non a caso impegnate tanto le truppe francesi di Air France quanto quelle tedesche di Lufthansa.
 
Milano, cerniera tra il baricentro centroeuropeo e il Mezzogiorno mediterraneo – un tempo, il Sacro romano impero e i suoi possedimenti meridionali – era ed è infatti il varco inaggirabile cui questa strategia di penetrazione ha sempre puntato per impedire diverse correlazioni geopolitiche, spingendo l’asse di insediamento tedesco ad est del Mincio. Oggi a Milano queste armate si presentano con l’appeal globale che da sempre Parigi esercita, attraverso le espressioni di punta (moda, design, stile) di ciò che costituisce la cultura di un Paese ricco. Cioè, ancora una volta, capacità di influenza come soft power, presenza nell’immaginario collettivo, che cattura facendo leva su caratteristiche e preferenze del mercato di insediamento e secondo una strategia consapevole dai risultati assai concreti: si pensi all’operazione Lvmh-Bulgari o a quella, meno recente, Ppr-Gucci. Ma i salotti meneghini in cui la Francia si fa strada non sono solo quelli di moda e finanza, dove le concentrazioni di potere come Mediobanca e Intesa San Paolo da tempo hanno una constituency francese.
 
Ad essere coinvolti sono gli asset industriali complementari a quelle concentrazioni.
A partire da Edison, tradizionale articolazione del capitalismo privato settentrionale (la cosiddetta Galassia del nord), e in cui ancora oggi sembrano misurarsi le potenzialità (o velleità) di una “Lega santa” tra papato, svizzeri e lombardi come quella che nel 1511 cercò di fermare senza successo Francesco I. Nella trasposizione odierna, è il gioco a scacchi ingaggiato, a colpi di comunicati e moral suasion (nonché con un gioco di ritorsioni anche su altri dossier, come quello di Autostrade), tra l’utility regionale lombarda A2A e il gigante capital-statale Edf, entrato in Edison 10 anni fa. Senza scordare che un analogo scontro con la romana Acea ed il colosso a partecipazione statale Gaz de France-Suez aveva portato nei mesi scorsi ad una separazione fra i due soggetti.
Per completare il quadro tattico non vanno trascurati i contrafforti industriali, paragonabili a quei capisaldi fortificati che per secoli garantirono la presenza francese nel lombardo-piemontese (Saluzzo, Pinerolo, Monferrato). In questa luce possiamo leggere il radicamento padano di Lactalis nei marchi lattiero-caseari tradizionali, e ancora di più l’insediamento diffuso – così conforme alla struttura delle conurbazioni nella città continua della provincia produttiva e delle grandi periferie – dei colossi del grande commercio organizzato a insegna francese: Carrefour, Leclerc, Auchan, Leroy Merlin.
 
Un capitolo a parte, e politicamente decisivo, meritano le dismissioni industriali e bancarie italiane, risvolto della ventennale ristrutturazione dell’economia nazionale. Qui, opportunismo alla Carlo VIII (capacità cioè di inserirsi nelle maglie larghe di una nazione iper-frazionata) e dirigismo alla Colbert si sono combinati a ondate successive per creare sinergie geopolitiche in grado di rafforzare la posizione competitiva francese nel mondo. Alla prima fattispecie appartiene senz’altro l’inserimento di Bnp Paribas che scombinò il progetto di polo finanziario Bnl-Unipol-Bpl, sfruttando frizioni tra i centri di potere economico-finanziario italiano, nel 2006. Alla seconda possiamo far risalire le accorte acquisizioni nel 1993-95 di asset chimici e metallurgici pubblici da parte di Arkema (Total) e SaintGobain.
In ogni caso, manovre che hanno consolidato le punte dell’offensiva economica transalpina, non più nella prospettiva di una “guerra d’Italia” limitata alla dimensione europea, ma in un confronto globale in cui la posta mediterranea e asiatica è l’implicito orizzonte della contesa. Dove i nipotini di Asterix hanno, in tema di interesse nazionale, tanto da insegnarci.


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