Nemmeno il voto di preferenza ha richiamato i votanti alle urne. Ma una democrazia non può ridursi a una selezione di eletti decisa da pochi intimi. L’analisi di Giuseppe De Tomaso
Una volta, in Italia, solo i centenari e i malati terminali non andavano a votare. Per tutti gli altri, l’appuntamento con la cabina elettorale era ineludibile, sacro come il battesimo in chiesa. Poi, col tempo, è cresciuta la disaffezione verso le urne, che ormai ha raggiunto, lo si è visto nelle regionali di Lazio e Lombardia, percentuali da diserzione di massa. C’è da preoccuparsi seriamente o gli allarmi per il mega-assenteismo dei votanti sono alquanto esagerati? Molto probabilmente dipende dai punti di vista, dalle interpretazioni che il fenomeno alimenta. Vediamo.
Nell’immediato secondo dopoguerra – forse perché 20 anni di dittatura avevano riacceso, tra gli italiani, la voglia di scegliere -, l’opportunità di correre a votare era ritenuta un dovere, addirittura un obbligo, prima ancora che un diritto. Ma le cifre-record della partecipazione al voto non erano giudicate un segnale rassicurante. Stavano a significare che, nell’era della doppia contrapposizione, esterna (Usa-Urss) e interna (Dc-Pci), nessun duellante si fidava della correttezza istituzionale dell’altro e che la cosiddetta legittimazione reciproca, pilastro di ogni liberaldemocrazia funzionante, restava solo un pio desiderio. Di fatto, la debordante passionalità che si riversava in ogni competizione elettorale non contribuiva, allora, al rasserenamento degli animi, anzi favoriva un clima di intolleranza vicendevole che spesso finiva per determinare lo sciopero della ragione e per eccitare le menti più torbide e intolleranti, talora attirate nella trappola degli opposti estremismi. Alcuni partiti, in quegli anni lontani, erano decisamente anti-sistema. Il che induceva anche gli elettori moderati più pigri a non boicottare mai la sospirata chiamata alle urne.
Invece all’estero, nelle democrazie più collaudate, i numeri della partecipazione al voto erano sensibilmente inferiori, a dimostrazione del fatto che quelle popolazioni si ritenevano totalmente al sicuro, garantite, chiunque fosse stato il vincitore delle gare elettorali. Non a caso, era condivisa da tutti la seguente equazione: più è folto l’esercito dei votanti, più è fragile la democrazia; meno è massiccio l’afflusso dei votanti, più è solida la democrazia.
Oggi sembra vero il contrario. Il tracollo dell’affluenza alle urne sta riproponendo con forza la questione della legittimazione sostanziale di una democrazia concimata, all’atto pratico, soltanto da un terzo degli aventi diritto al voto. E’ vero che anche per gli odierni assenteisti potrebbe valere la riflessione di cui sopra, ossia che la fine degli ideologismi e la conseguente inclusione-accettazione effettiva di tutte le sigle politiche nell’agone parlamentare hanno stemperato le antiche tensioni tra i partiti, oltre che tranquillizzato le varie anime dell’opinione pubblica, un tempo spaventate dall’eventuale vittoria dei nemici (oggi, tutto sommato e per fortuna, promossi ad avversari). Ma è altrettanto vero che, di questo passo, ci si sta avviando, ad andamento nemmeno tanto lento, verso riti elettorali onorati da pochi intimi. Una prospettiva che non può essere affrontata con noncuranza, facendo finta di nulla manco fosse uno sbadiglio a mezzanotte. Bisogna agire, intervenire, prima che l’edificio democratico rappresentativo si disintegri, da un momento all’altro, dopo lo scoppio di questa bomba a orologeria denominata renitenza alle urne.
E però non è semplice, né sarà scontato, trovare il vaccino adatto per curare il mal di voto o, per così dire, arginare il virus del non-voto. Negli ultimi anni la spiegazione prevalente sulla defezione elettorale faceva perno sulle inesorabili conseguenze dell’abolizione, alle politiche, del voto di preferenza. La griglia dei candidati da scegliere era ritenuta di per sé il miglior salvagente, il più efficace fattore di mobilitazione tra i militanti e di interesse tra i cittadini. Eliminata la lista dei candidati su cui fare pronunciare liberamente le indicazioni popolari, la fuga dal voto da parte della gente comune sarebbe stata più implacabile di una legge naturale. Già. E a ben vedere questo ragionamento non faceva una piega. Se non fosse che la diserzione dei votanti lombardi e laziali ha colpito, domenica scorsa, un sistema elettorale, quello delle regionali, fondato proprio sul voto di preferenza, non su nominativi predefiniti. E, allora, come la mettiamo adesso?
Prima esegesi, circolata da sùbito, non appena sono spuntati i primi dati sull’elevata indifferenza da parte degli elettori: troppo deboli i candidati in pista, nessun nome di richiamo, logico che la maggioranza dei cittadini di Lazio e Lombardia abbia preferito restare a casa o fare una gita fuori porta.
Seconda esegesi: se parecchi simpatizzanti del centrosinistra hanno marcato visita perché certi di perdere, diversi sostenitori del centrodestra hanno bidonato i seggi elettorali perché certi di vincere. Per entrambe le tifoserie, cioè, il risultato delle due sfide regionali era più prevedibile di un gol di Messi in un mondiale di calcio. Ergo: perché precipitarsi alle urne?
Terza esegesi: diversamente dalle consultazioni per il Parlamento europeo e il Parlamento italiano, il voto locale solitamente non attrae il cosiddetto elettorato d’opinione. Quindi…
Quarta esegesi (si è letta anche questa): la concomitanza del festival di Sanremo, il più colossale evento di distrazione di massa della Penisola, ha distolto molti potenziali votanti, che hanno deciso di rimanere in poltrona per non perdersi, domenica davanti alla tv, neppure un minuto del dopo-festival, che, in Italia, equivale, come presa sul pubblico, all’irresistibile pettegolezzo di spogliatoio di un derby calcistico.
Forse è stata trascurata un’altra motivazione, che rimanda allo stato dell’economia italiana. Malgrado tutto, malgrado la guerra, malgrado l’inflazione putiniana, il Pil italiano nel 2022 è cresciuto del 3,9%, doppiando il corrispettivo tedesco (+1,8%). E anche il 2023 non si è presentato sotto cattivi presagi. Non solo. In molte aree del Paese abbonda il lavoro, ma non si trovano i lavoratori.
Domanda (tra i cittadini): se il lavoro c’è, a che serve farsi coinvolgere, farsi travolgere dalle contese elettorali e dalle battaglie politiche? Risposta (tra i cittadini): non serve a nulla, l’importante è lavorare e andare avanti, di tutto il resto chi se ne frega. Non è una bella giustificazione, non è un atteggiamento maturo e responsabile, bisogna riconoscerlo. Ma forse ci sono due tipi di diserzioni da parte degli elettori: le diserzioni dettate dal pessimismo, dal fatalismo e le diserzioni dettate dall’ottimismo, dalla fiducia. Osiamo sperare che, stavolta, si tratta di quest’ultime.