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Ecco le tre sfide future per i Fratelli di Giorgia

Di Salvatore Vassallo e Rinaldo Vignati

Il partito nato dieci anni fa ha davanti a sé delle sfide importanti, tre in particolare meritano di essere considerate. Ecco quali secondo Salvatore Vassallo e Rinaldo Vignati, autori di “Fratelli di Giorgia. Il partito della destra nazional-conservatrice” (Il Mulino) di cui pubblichiamo un estratto

Gli sviluppi dell’identità di FdI dipenderanno dalle risposte che riuscirà a dare ad alcune sfide. Una riguarda la democrazia dentro il partito. Il sistema politico italiano degli ultimi decenni ha sperimentato una varietà di modelli di partito verticistici, in alcuni casi anche in quanto il leader manteneva, a titolo personale, la proprietà del marchio (Forza Italia, M5S). È anche vero che, in linea con una tendenza diffusa nelle democrazie liberali [Hazan e Rahat 2010], altri partiti, e in particolare il Pds [Vassallo 2014], alla cui esperienza indirettamente FdI aveva all’inizio detto di volersi ispirare, hanno sperimentato una apertura della loro base associativa e regole di partecipazione diretta degli associati alla scelta del leader.

Nel caso di FdI, il quasi totale aggiramento delle procedure democratiche interne, sostituite da misurazioni impressionistiche del consenso di cui i quadri territoriali sono portatori e da una investitura per acclamazione della leader, è reso particolarmente stridente da tre fattori: a) il contrasto con le enunciazioni partecipative della fase fondativa; b) il contrasto palese con le norme scritte nello statuto; c) il contrasto con il continuo richiamo all’essere un “partito vero”, cioè un partito che mantiene tratti dei partiti di massa della seconda metà del secolo scorso. Non c’è dubbio che la sostituzione delle procedure democratiche con meccanismi informali controllati dal vertice ha favorito la coesione e l’efficacia di FdI e ha aiutato Giorgia Meloni ad apparire una leader credibile (che cioè non viene messa costantemente in discussione dai suoi stessi compagni di partito, come accade spesso ad altri, soprattutto a sinistra). Ma, alla lunga, per varie ragioni, politiche e giuridiche, questa anomalia rischia di diventare invece un serio problema, anche al suo interno, quando FdI dovrà fare i conti con conflitti di ambizione in presenza di una riduzione degli incarichi da distribuire.

Una seconda sfida riguarda la formazione e l’allargamento della classe politica. Il meccanismo di selezione endogeno (quasi tutto interno al mondo post-missino) e controllato con grande attenzione dal vertice che abbiamo descritto nel capitolo 5, a fronte della crescita straordinaria e rapidissima delle responsabilità a cui il partito è stato chiamato, ha come ulteriore effetto l’emergere qua e là di una certa inadeguatezza del personale politico. Benché Giorgia Meloni non perda occasione di sottolineare quanto la classe dirigente di FdI sia solida, diffusa, competente (“Pronti” ero lo slogan della campagna elettorale), non mancano i casi in cui è risultato evidente il contrario. Sono proprio gli esponenti a lei più vicini, in modo involontario, e per certi aspetti paradossale, ad avercelo segnalato. In una delle nostre interviste, un importante dirigente nazionale così si è espresso (e le sue parole, le abbiamo ritrovate, con minime variazioni, nelle dichiarazioni di quasi tutti gli altri esponenti del partito con cui siamo entrati in argomento):

“Giorgia è una spugna. Lei sente trenta persone, prende il meglio di queste trenta persone ed elabora lei una posizione. […]. Noi siamo davvero melonicentrici. [elenca alcuni nomi di dirigenti che danno contributi], ma poi chi decide la posizione è lei, su tutto…” “Anche sugli aspetti tecnici?” “Sì. È una secchiona: noi possiamo studiare quanto vogliamo, ma quello che studiamo noi non è mai quello che studia lei. […] Se su una questione ti chiede: “Mi prepari, mi aiuti, mi fai capire questa cosa?”, tu studi per una settimana, vai da lei e scopri che ne sa più di te…”.

In un piccolo partito, come in una piccola impresa, è plausibile che l’imprenditore sappia o intuisca al volo di più di ciascuno dei suoi collaboratori. Al “governo della Nazione” sarebbe più rassicurante avere un/a leader che sappia circondarsi di molte persone che, su ogni singolo dossier, ne sanno molto più di lui/lei.

La terza sfida riguarda il superamento delle narrazioni cospirazioniste. Che questi elementi illiberali ricorrano nella cultura di FdI è documentabile in abbondanza. Evocare l’esistenza di potenti lobby Lgbt mosse dal capitalismo mondialista o parlare di sostituzione etnica significa evocare fantomatici piani occulti e forze che agiscono nell’ombra. Significa portare il confronto politico sul piano di una contrapposizione tra bene e male, anziché su quello di una competizione tra orientamenti politici e tra valori diversi, in contrasto tra loro, ma ugualmente rappresentativi di parti della società italiana e parimenti legittimi. Questo tipo di retorica si è rivelata elettoralmente efficace quando il partito era all’opposizione: la posizione di guida del governo è un incentivo a metterla da parte, ma rimane il dubbio che, se il vento dovesse cambiare, potrebbe riapparire alimentando una polarizzazione malsana. D’altro canto, l’abbandono di una retorica ancora più marcatamente orientata a demonizzare gli avversari da parte del M5S, intensamente praticata fino al 2019 e poi addirittura oggetto di una pubblica abiura da parte dei vertici dello stesso partito, lascia ben sperare.

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