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Napoli, Sudamerica. Breve viaggio intorno all’arte di Ermanno Rea

“Napoli Ferrovia”, libro di Ermanno Rea del 2007 sta diventando in queste settimane un film dal titolo “Caracas”, per la regia di Marco D’Amore. “Ciro” di Gomorra interpreta l’uomo che si fa chiamare Caracas. Toni Servillo è uno scrittore che rimette piede dopo tanto tempo nella sua città e impara a ri-conoscerla attraverso questa strana amicizia…

Il comunista e il neonazista. L’ateo e l’islamico. Entrambi napoletani, tutt’e due della Ferrovia. Clamoroso gioco di specchi ustori che vivifica il romanzo semiautobiografico, l’autofiction, il diario di fantasia, o chissà cosa, al quale Ermanno Rea, il grande Ermanno Rea, diede il titolo di “Napoli Ferrovia”. La notizia è che quel libro del 2007 sta diventando, proprio in queste settimane di set napoletani, un film dal titolo “Caracas”, per la regia di Marco D’Amore (Ciro l’Immortale di “Gomorra”, in foto). D’Amore interpreta l’uomo che si fa chiamare Caracas. Toni Servillo è uno scrittore (ben più giovane della figura del libro, “vecchia cariatide comunista” ormai ottantenne) che rimette piede dopo tanto tempo nella sua città e impara a ri-conoscerla attraverso questa strana amicizia.

È il tema del ritorno nella “città porosa”. Il medesimo tema di un altro libro di Rea, “Nostalgia”, diventato film con la regia di Mario Martone. Un uomo che torna a Napoli. E incontra una sorta di alter ego.

Qualcosa di profondamente sentimentale. Però al cinema va a perdersi la sostanza politica dell’arte di Rea. Accadeva lo stesso con “La stella che non c’è” di Gianni Amelio, tratto da “La dismissione”, centrato sulla chiusura dell’acciaieria di Bagnoli, anima industriale di Napoli, “una controcopertina che trasformava in alacrità l’indolenza” secondo Rea. Nulla di tutto questo rimaneva nella pellicola, che anzi cominciava dove finiva il libro, col viaggio dell’altoforno smantellato verso la Cina. E forse non è un caso se “Mistero napoletano”, il capolavoro assoluto di Rea, e la più politica delle sue opere, non sia mai diventato film. Eppure c’è dentro una straordinaria storia d’amore. Una tragedia del cuore. Dentro un grande affresco sociale. Una sinfonia di città. Francesca Spada è per certi versi l’archetipo di tutte le “amiche geniali” possibili. Ma più brava. Più vertiginosa. E, soprattutto, più comunista.

“Comunismo letterario” era il modo in cui Rea definiva il comunismo della sua giovinezza. Si parlava di Marx, ma più ancora di letteratura. L’occasione per me di incontrare per la prima volta Rea fu un’intervista: l’idea era raccontare cos’era stato il Pci napoletano del dopoguerra, l’occasione arrivava dalla scomparsa di pochi giorni prima di Massimo Caprara. Caprara era figlio della borghesia napoletana. ‘Ceto medio e Napoli rossa’: Togliatti lo scelse, giovanissimo, come suo segretario personale. Preferendolo al proletario Renzo Lapiccirella, personaggio centrale di “Mistero napoletano” insieme alla sua compagna anche di vita Francesca Spada, poi suicida (quel suicidio è il mistero, almeno il principale, del titolo). “Il Pci napoletano era un partito stalinista e io stavo con gli scapigliati”, mi diceva Rea. Che rivendicava quell’appartenenza, benché presto recisa, eccome: “Osservo con sbigottimento la scelta di quanti hanno smesso di essere comunisti per diventare, con non meno fanatismo di prima, anti-comunisti. Vivendo il tutto con una nevrosi permanente: evidentemente il comunismo ha prodotto molti malati”, raccontava in quell’intervista.

Malattia, nevrosi, tormento. Rea aveva fatto propria la celebre intuizione di Raffaele La Capria, che considerava forse come un maestro, nonostante fossero quasi coetanei. (Divagando: chi capiti alla Biblioteca Doria Pamphilj, in Roma, a prendere in prestito un libro di Rea, potrebbe ricevere una copia firmata dall’autore con dedica a La Capria, che a sua volta ha donato al fondo…). Ma dicevamo. Le famiglie, talora imparentate, a Napoli erano due. I feriti a morte: come la Spada, il geniale matematico Renato Caccioppoli nipote di Bakunin, il dimenticato scrittore Luigi Incoronato… E gli addormentati: chi non vede, non sente, non parla, nel sonno della Storia, senza riscatto né speranza. L’alternativa era la fuga, e Rea è stato uno degli innumerevoli grandi napoletani senza più Napoli, abitanti di una Napoli extraterritoriale, una Napoli dello spirito. L’elenco dei nominabili è praticamente infinito.

Rea se n’era andato, andandosene anche dal Pci: subito dopo la repressione di Budapest, nel 1956, “quando i fatti d’Ungheria sono iniziati, e non sono più finiti”, mi diceva, e a ben pensarci stanno oggi continuando a Kiev… Rea se n’era andato: da Napoli, e dall’”Unità” di Napoli dove lavorava: prima in giro per il mondo come fotoreporter, poi a Milano come giornalista, infine a Roma. L’ultima residenza, quella in cui l’ho conosciuto, a via del Mascherino, a Borgo: e faceva un po’ sorridere che lui, ateo, anticlericale, e più specialmente nemico dello spirito della Controriforma, fosse un vicino di casa del Papa, forse, chissà, per un lieve gioco di contestazione…

La Bur stava per pubblicare, in unico volume, “Rosso Napoli”, la trilogia in cui Rea aveva raccontato, stracciando tutte le cartoline, una città raggelata dalla guerra fredda, riaccesa nelle lotte per il riscatto e quasi sempre ripiegata nella delusione, erosa in una allucinata contemporaneità: “Mistero napoletano”, “La dismissione”, “Napoli Ferrovia”. Giunto al successo editoriale piuttosto tardi, esordendo in narrativa ormai 65enne con “L’ultima lezione” dedicato all’economista Federico Caffè, scomparso nel nulla come Majorana (anche questo libro è diventato un film, diretto da Fabio Rosi), Rea era diventato un nome di primo piano delle lettere. Ricalcando quell’ultimo suo titolo, il vecchio Tullio Pironti aveva deciso di intitolare “Grand Hotel Ferrovia” un libro di fotografie sui disperati di Piazza Garibaldi, libro che da poco aveva pubblicato, e nel dirmelo andò ad estrarne una copia da un qualche polveroso anfratto della Piazza Dante suo reame incontrastato.

Il libro era composto di meravigliose, disturbanti immagini in bianco e nero di una metropoli biblica, sull’orlo estremo dell’esplosione. L’autore: Abdullah Ferdinando Ottaviano Quintavalle. Meglio conosciuto nel giro come Mexico. Nato a Caracas, militante di estrema destra in gioventù, convertito all’Islam, maestro d’arti grafiche. Ecco chi era il Caracas di “Napoli Ferrovia”. Oppure no? Forse è accaduto semplicemente quanto è scritto, la trasformazione di “un libro-verità in un libro-fantasia se non in un libro-menzogna”. La menzogna: un modo sincero per autenticare la vita.


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