Mohammed Bouaziziun, ambulante abusivo di verdure, il 17 dicembre 2010 in Tunisia si dà fuoco per protestare contro la burocrazia. Morirà il 4 gennaio a 28 anni, dopo avere innescato la rivoluzione nel suo Paese e, a macchia d’olio, al Nordafrica e al Medio Oriente. A 6 mesi dal suo inizio, non è ancora chiaro quando finirà e soprattutto quali cambiamenti porterà. Chiamata la Primavera araba, in realtà gli elementi comuni sono pochi e non vanno oltre il fatto che tutti chiedono riforme, democrazia e la fine dei regimi al potere. Un po’ paradossalmente, è solo la rivolta che unisce un mondo arabo spaccato da una storia antica su cui la modernizzazione ha agito poco.
La Libia, si scopre solo ora che è composta di tribù, dopo che per 42 anni il colonnello Gheddafi ha fatto credere a noi, ma soprattutto a molti Paesi poveri, che la sua Rivoluzione verde, certamente ingenua, potesse rappresentare un modello di sviluppo quasi socialista integrato con la religione islamica. In Egitto i militari, che con una certa regolarità cambiano il presidente, possono fare poco per evitare le millenarie divisioni religiose. In Siria, nonostante la brutalità delle repressioni, lo scontro è di tipo settario. Nei Paesi ricchi del Golfo, i soldi del petrolio servono per comprare una tranquillità sociale destinata a durare a lungo, utile anche a noi consumatori di petrolio. Se così non fosse e se l’Arabia Saudita finisse nel caos, allora il petrolio salirebbe oltre i 300$ per barile, contro gli attuali 110. Questo è il Paese paradossalmente più stabile, meglio rigido, di tutto il mondo arabo, con la dinastia degli Al Saud che, unico caso al mondo, ha dato il nome allo Stato e che dura incessantemente al potere dagli anni ‘20 dello scorso secolo, perpetrando un sistema statale che di moderno ha solo i lussuosi beni comprati all’estero.
Nel vicino Bahrein le cose sono andate diversamente ed è dovuta intervenire l’Arabia Saudita con il suo esercito per sedare solo momentaneamente la rivolta. L’Arabia saudita confina a sud con lo Yemen, il Paese più povero dell’intero mondo arabo, e uno dei più poveri al mondo, con 3 dollari per persona al giorno tra i suoi oltre 24 milioni di abitanti. Quanto sia importante lo Yemen per la stabilità dell’area lo sa bene l’Arabia, che da decenni cerca di limitare ai suoi confini il flusso di persone e armi che alimentano il terrorismo interno ed estero. Vale ricordare che la famiglia di Bin Laden, arricchitasi a fare porti e città, proveniva dallo Yemen, Paese col quale ha mantenuto sempre relazioni importanti. Al centro di questa striscia di Paesi arabi che va dall’Atlantico al Pacifico passando per due continenti, c’è il Libano, Paese che vive di profonde differenze religiose, con ben 18 confessioni, e che vanta il triste primato delle più sanguinosa e lunga guerra civile dell’area, aggravata dai frequenti conflitti con Israele. L’esperienza del Libano ricorda a tutti questi aspiranti democratici che cosa potrebbe accadere se le cose andassero male.
I prezzi del petrolio nel giugno del 2011 si sono stabilizzati sopra i 110$ per barile e probabilmente per l’intero anno la media si collocherà intorno ai 100$, valore più alto in assoluto, superiore anche ai 97$ del 2008, quando solo momentaneamente vennero raggiunti i 148$. Le grandi banche di investimento, guidate da Goldman Sachs, hanno le tasche gonfie di dollari presi in prestito a tassi vicino allo zero e, vedendo l’instabilità politica nei Paesi arabi, continuano a comprare petrolio sulle Borse nell’attesa che questo salga, profezia che tende ad autoaffermarsi con facilità. Nell’area sono concentrati il 65% delle riserve mondiali di petrolio e il 50% di quelle di gas. Queste risorse furono accertate oltre 40 anni fa quando le tecniche di esplorazione erano molto meno efficaci di quelle attuali e ciò fa ritenere che quelle potenziali possano essere almeno il doppio. I costi di estrazione qui sono in assoluto i più bassi del mondo: per il petrolio inferiori ai 5$ per barile, mentre per il gas, spesso prodotto dagli stessi giacimenti di petrolio, sono vicini allo zero. A volte viene addirittura bruciato appena esce dal giacimento, perché non si può commercializzare verso i Paesi industrializzati. Questo vide Enrico Mattei quando andò nei Paesi del Nordafrica alla fine degli anni ‘50 e si chiese come si poteva portare quelle enormi quantità di energia verso l’Italia.
La scena nel film Il caso Mattei di Francesco Rosi sintetizza molto bene il momento in cui viene concepito dal presidente dell’Eni il progetto dei grandi gasdotti che sarebbero poi stati costruiti nei decenni successivi e che tuttora, per la Libia fino al 21 febbraio scorso, portano enormi quantità di gas dai deserti del Nordafrica fino al grande stoccaggio di gas di Minerbio vicino a Bologna. I due collegamenti dalla Libia e dall’Algeria verso la Sicilia, assieme al gasdotto che va in Spagna dall’Algeria, sono le due opere più importanti che uniscono fisicamente il Nordafrica all’Europa, infrastrutture condivise che possano fare un mercato strutturalmente più legato. Qualunque possa essere l’esito delle rivolte del mondo arabo, di certo c’è che chi andrà al potere dovrà contare, come in passato, sulle esportazioni di gas e petrolio per incassare denaro, sperando che questo possa essere investito meglio per dare maggiore stabilità economica e più democrazia. La popolazione dell’area è di 160 milioni di abitanti, 25 in più in solo 10 anni, e nei prossimi 10 anni saranno altri 25 milioni.
Una volta tanto non suona così male constatare che anche per i prossimi decenni l’Europa, e in particolare l’Italia, rimarrà fortemente dipendente dalle importazioni di gas e petrolio del mondo arabo e che così darà a lungo occasione di sviluppo per le future democrazie, speriamo numerose, del Nordafrica e del Medio Oriente.