Non ha molto senso essere ricchi d’acqua ma poveri di infrastrutture idriche: questo deve essere il messaggio per un Paese come il nostro dove vige la regola che alle grandi emozioni legate alle emergenze, come questa siccità, seguono grandi rimozioni. Lo studio presentato dalla Fondazione Italiadecide e realizzato dalla Fondazione Earth Water Agenda con Proger
La giornata mondiale dell’acqua 2023 si apre con un grosso problema globale e un altrettanto grosso problema italiano.
Il primo ce lo descrivono le diecimila pagine con i peggiori dati e grafici dell’ultimo dei sei rapporti finora redatti dall’Intergovernmental Panel on Climate Change dell’Onu, presentato ieri. L’obiettivo speranzoso di stabilizzare la temperatura terrestre a più 1,5 gradi entro metà secolo è ormai bruciato e questa soglia-limite verrà superata tra una decina di anni senza azioni e reazioni concrete e immediate.
Ma il Pianeta corre verso l’aumento di 4 o anche 5 gradi al 2100, l’incubo ormai ritenuto potenzialmente raggiungibile dai mille scienziati di ogni paese che denunciano quanto siamo “fuori strada”, e continuano a chiedere sforzi per dimezzare entro il 2030 o quantomeno non peggiorare il livello delle emissioni killer di anidride carbonica in atmosfera visto che abbiamo raggiunto il record degli ultimi 2 milioni di anni con la temperatura globale a più 1,1 gradi sul 1850 che diventano 1,5 nella regione del Mediterraneo.
E la vittima numero uno è proprio l’acqua, prima vittima e front line del riscaldamento globale ma nostra principale alleata nella battaglia climatica visto che produce oltre il 50% di ossigeno e assorbe un terzo dell’anidride carbonica, e regola il clima con correnti e maree. Ma non merita nemmeno una chiacchiera nel G20 o nel G7, uno speech nelle assise mondiali, un capitolo adeguato negli Accordi sul Clima nelle Conference of the Parties delle Nazioni Unite.
Il secondo problema è nell’area del Mediterraneo dove le temperature corrono a una velocità del 20% superiori alla media globale, mandando all’aria la leggendaria caratteristica termoregolatrice del grande mare-lago con il “clima temperato” gradevole e dolce, sono circa 250 milioni le persone con scarsità idrica e sotto gli effetti dell’innalzamento del livello del mare e dell’intrusione del cuneo salino che salinizza le acque di falda delle terre agricole di pianura. Ondate di calore prolungate con siccità e carestie periodiche tra Tunisia, Algeria e Marocco spingeranno a migrazioni di massa.
Quanto rischia l’Italia, geograficamente un pontile nel Mare Nostrum, e uno dei “laboratori” degli impatti del global warming alle prese con il primo biennio siccitoso 2022-23 della nostra storia di rilevazioni? Siamo entrati in una dimensione inedita, ed è clamoroso l’impatto delle ondate di calore partite dal Nord e in particolare dal Nord-est che ormai somiglia al Sud, colpito dalla più lunga delle 9 gravi siccità che ci hanno colpito dal 2000 – 2000, 2001, 2002, 2003, 2006, 2012, 2017, 2019 – finora con esborsi pubblici per oltre 20 miliardi.
Per la prima volta la siccità mette in ginocchio il cuore produttivo del bacino del Po dove fioccano ordinanze di razionamento nei vari utilizzi di fronte all’agonia del nostro più grande fiume verso il Delta dove l’acqua salata risale per 40 km, desertificando e inquinando falde di acqua dolce che diventano salmastre, aumentando l’inaridimento costiero già in atto su circa 20.000 km di terreni agricoli dall’alto Adriatico alla Maremma, dalle coste laziali al Sud e sulle isole.
Irriconoscibili e stremati sono anche i laghi, con cali spaventosi, per non dire della neve che manca e dei ghiacci in fusione.
Il Po, con i suoi 141 affluenti, alimenta il 40% del Pil italiano con produzioni agricole, industriali, zootecniche, idroelettriche. L’agricoltura ha subito perdite con anche il 45% in meno per mais e foraggi, e il 30% per il riso, denuncia Coldiretti. La produzione idroelettrica è passata dai 46,9 Twh del 2021 ai 29,7 del 2022 e il 2023 ha lo stesso trend, rileva Terna. Sono 1.703 i comuni sotto stress idrico ormai dalla primavera 2022, e per molti la Protezione Civile gestisce via vai di autobotti, sistemi di by pass e scavi di nuovi pozzi di emergenza. Ma l’Italia può deve reagire e recuperare, le proiezioni climatiche non proiettano sulla penisola l’incubo della California o di Israele e di tanti paesi sotto stress idrici endemici. Di piogge ne abbiamo, e ne avremo ancora in abbondanza, e ogni carenza è risolvibile a patto che si cambi radicalmente approccio.
L’analisi idrologica più aggiornata – appena presentata al Senato dalla Fondazione Italiadecide e realizzata dalla Fondazione Earth Water Agenda con Proger su dati scientifici – Ispra, Copernicus, Cnr, Enea, Istat, Autorità di bacino, Regioni e Ministeri, Consorzi di Bonifica e Utilitalia -, mostra una delle più straordinarie dotazioni mondiali di acqua con una media di precipitazioni annuali di ben 301 miliardi di metri cubi, cioè 2.800 metri cubi ad abitante, incredibile se pensiamo al consumo medio annuale di una famiglia di 140 metri cubi. Tra i 27 Paesi UE siamo al quinto posto per piogge dietro Croazia, Irlanda, Austria e Slovenia. E i nostri circa 1000 mm di pioggia all’anno superano la media europea di 856.
Tra le grandi città Milano è la più piovosa d’Europa con 1162 mm all’anno, e seguono Napoli con 1.008 mm, Firenze a 935, Torino a 914, Roma a 837 e solo dopo troviamo Parigi 720, Londra 690 e Berlino 669. E del resto la nostra ricchezza di acqua è visibile nel nostro ricchissimo patrimonio idrologico con 75.000 sorgenti, 7.644 corsi d’acqua con 1200 fiumi, 368 laghi e 15.963 piccoli specchi d’acqua, 1.053 falde di acqua purissima.
Avremmo dunque acque largamente sufficienti per tutti gli utilizzi vista la media annuale utilizzabile stratosferica pari a 168 miliardi di m3. Ma qui arrivano i problemi. Quanta acqua preleviamo? Circa 34 miliardi di m3 all’anno, più o meno l’11%, che comunque consentirebbe la sicurezza dei fabbisogni idrici di quasi due penisole italiane. Ma così non è perché flussi per 7,6 miliardi di m3 di acqua prelevata non arrivano a destinazione e si sprecano per strada, cosicché l’acqua disponibile si riduce a 26,6 miliardi così distribuiti: 51% in agricoltura, 21% nell’industria, 20% nel servizio idrico, 5% per l’energia, 3% zootecnia. Sarebbe però ancora sufficiente se non ci fossero perdite e sprechi negli utilizzi tra il 70% e il 20%.
Questo elevato livello di dispersione fa paio con il secondo nostro grande gap, quello dell’immagazzinamento di acqua. Siamo poco sopra le capacità di invaso di 50 anni fa, ma con necessità e consumi nel frattempo enormemente aumentati. Le nostre 531 grandi dighe hanno una capacità di stoccaggio per 13,6 miliardi di m3, ma oggi ne invasano solo 8,8 miliardi per una quota di dighe in invaso limitato o fuori esercizio e per l’interramento progressivo con sedimenti accumulati e mai rimossi per disinteresse, procedure assurde e persino proteste locali. Abbiamo poi 26.288 “piccole dighe” nelle stesse condizioni, e servirebbero almeno 2000 nuovi piccoli e medi invasi come prevede il piano di emergenza dei Consorzi di bonifica. Ma trattenere appena il 4% scarso di acqua piovana è un altro paradosso italiano.
Il disinteresse e la sottovalutazione è visibile nella spesa pubblica nazionale dove gli investimenti per l’acqua valgono in media annua tra l’1% e il 2%, le stesse briciole che le destina il PNRR con poco più di 4 miliardi su complessivi 191,5. L’acqua, insomma, è la Cenerentola, la grande assente nella visione politica, ed è clamorosa e autolesionista la sottovalutazione del lavoro per poterla captare, immagazzinare, trasportare, distribuire, depurare, desalinizzare e trasformarla in energia rinnovabile. Siamo invece largamente primi nelle classifiche europee di inquinamento, sprechi e dispersioni. Paghiamo 165.000 euro al giorno per le prime 2 condanne della Corte di giustizia europea per mancata depurazione in circa 2000 Comuni con un terzo di italiani non allacciati a un depuratore o addirittura a una rete fognaria.
Se è un dovere costruire ponti e reti ferroviarie, stradali digitali ed energetiche, perché la “rete delle reti”, la rete dell’acqua non è una priorità? Per questo, le sempre più prolungate siccità ci sbattono in faccia ogni volta le insopportabili condizioni di sottosviluppo infrastrutturale, e non solo nel Mezzogiorno.
Molti s’illudono che questa possa essere una crisi passeggera. In realtà la nottata non passerà anzi rischia di andare peggio visto che i nostri periodi di siccità sono passati in media da 40 a oltre 150 giorni l’anno. Serve la concretezza di una strategia nazionale integrata di adattamento e di investimenti e regole per tutti. Per il settore agricolo, maggior utilizzatore di acqua con oltre il 50% ma con sprechi che del 70%, dove l’utilizzo di tecnologie mostra risparmi clamorosi. Nell’industria idro-esigente che potrebbe utilizzare tranquillamente acqua di depurazione e riuso di acque meteoriche e non ottima acqua di falda solo per sanificare impianti, raffreddare macchinari, lavare piazzali e automezzi.
Ci sono ben 9 miliardi di m3 di acqua rigenerata da impianti di depurazione a costi elevati ma ributtati in mare, mentre sarebbero in grado di soddisfare anche utilizzi urbani (lavaggio strade e auto, innaffiamento giardini…) e colture agricole. Nel Servizio idrico integrato dei 9,5 miliardi di metri cubi prelevati ne arrivano ai rubinetti 5,2 e le perdite superano anche il 100% nel Sud dove ancora non si applica la Legge Galli del 1996 con il perdurante rifiuto delle logiche industriali nella gestione idrica, nonostante disservizi clamorosi.
La nostra rete acquedottistica è lunga circa 550.000 km ma il 60% risale a oltre 30 anni fa, e il 25% a 70-80 anni fa. La rete fognaria è lunga circa 1 milione di km. Servirebbe sostituire, rigenerare e riparare almeno 200.000 km di reti e posare 50.000 km di nuove condotte, 30.000 per l’acqua e 20.000 per le fognature. Ma con l’attuale tasso di rinnovo ai minimi europei – 3,8 km all’anno – Utilitalia calcola due secoli e mezzo per eliminare le perdite oggi al 38,2% dei 385 litri per abitante immessi giornalmente. E i fabbisogni complessivi stimati dai 61 Piani di Ambito italiani sono pari a 65 miliardi di euro, di cui 26 immediati.
Oggi il governo nella cabina di regia tra ministeri competenti mette sul piatto 7,8 miliardi recuperati da impegni finanziari rimasti a prendere polvere nell’indifferenza generale mentre la natura faceva il suo corso. Prepara commissari e un piano di interventi anche con nuove “fonti” come ricarica delle falde e dissalazione in aree costiere con elevata domanda turistica o nelle isole (oggi copre lo 0,1% del fabbisogno idrico ma potrebbe garantire in poco tempo il 2%). Servirebbe riformare le governance riducendo l’incredibile frammentazione di competenze con una Authority nazionale dell’Acqua che regoli e controlli tutti gli utilizzi, affidando le competente a chi già regola come l’Authority del servizio idrico ARERA.
Capire che non ha molto senso essere ricchi d’acqua ma poveri di infrastrutture idriche, è l’obiettivo di un Paese come il nostro dove vige la regola che alle grandi emozioni di emergenze come quelle di questa durissima siccità seguono grandi rimozioni. Basta non seguirla alle prime piogge.