“In fin dei conti moda significa abitudine, e le giovani generazioni possono cambiare un’abitudine molto in fretta. L’importante oggi è che si chieda alle aziende trasparenza e onestà”, le parole di Amy Myers Jaffe, docente e direttrice dell’Energy, Climate Justice and Sustainability Lab della New York University, a margine della conferenza al Centro studi americani
“Se ti dicessi che l’industria dell’abbigliamento produce circa il 10% delle emissioni globali di gas serra (Ghg) forse non saresti particolarmente impressionato”, dice a Formiche.net Amy Myers Jaffe, docente e direttrice dell’Energy, Climate Justice and Sustainability Lab della New York University, a margine del convegno “The environmental impact of the fashion industry and possible solutions for a sustainable future”, organizzato dal Centro Studi Americani e dall’Ambasciata americana a Roma. “Ma se invece dicessi che è una percentuale che si colloca tra i primi cinque Paesi emettitori di Ghg l’impatto psicologico sarebbe molto diverso”. Proprio da questo punto bisogna partire, secondo l’esperta, dal cambiare la percezione del consumatore per renderlo più consapevole delle proprie scelte di acquisto. “La fast fashion, poi, compone la metà delle emissioni di gas serra dell’intero settore. È necessario ridurre questi numeri del 50% entro il 2030 per allinearsi agli obiettivi di Parigi, del rimanere entro il limite dei 1,5 gradi Celsius”.
Ulteriore tema è quello delle microplastiche e dei materiali derivati dal petrolio. “Anche qui c’è una questione di percezione. Due terzi dei tessuti sono composti da prodotti petrolchimici, materiali che si stima rappresenteranno la metà del consumo di petrolio per il 2050. Diversi studi mostrano che tra il 9 e il 30 per cento delle plastiche che si trovano negli oceani deriva da tessuti sintetici”. Si stima che solamente l’uno per cento dei vestiti in circolazione venga riciclato, ma il punto non è solo questo, dato che “il lavaggio in lavatrice dei tessuti, ad esempio, comporta inevitabilmente il rilascio in acqua di microplastiche che poi finiscono nel circolo, appunto, dell’acqua”. C’è poi la questione dei resi. “La pratica del bracketing fa sì che più di un terzo degli acquisti online vengano resi o non utilizzati”, spiega la docente.
C’è una soluzione a questo scenario sconfortante? Secondo Jaffe sì e proviene dal regolatore. “I governi si stanno muovendo per fare in modo che i produttori e i retailer siano obbligati a informare sul serio i consumatori sulle catene di approvvigionamento e su come quel particolare vestito è stato creato e da cosa è composto. Questo è un trend molto importante perché i dati mostrano che i consumatori tendono a premiare i prodotti e le aziende che possano raccontare una storia realmente sostenibile”. Gli esempi si sprecano. “In Francia esistono dei minimi standard sull’informazione al consumatore sulla qualità ambientale, l’Ue ha la propria Strategia per la sostenibilità dei prodotti tessili, negli Usa si sta cercando di far passare il cosiddetto New York Sustainability Act”. Persino in Cina si fanno dei passi avanti. “Xi Jinping si è personalmente rivolto agli influencer del web perché orientino i consumatori verso atteggiamenti rispettosi dell’ambiente”.
Cosa fa invece l’industria? Esistono diversi approcci per mitigare l’impatto ambientale. “Alcuni migliorano l’efficienza energetica dei processi, o aumentano l’utilizzo di rinnovabili nelle operazioni. Esiste una vasta gamma di opzioni dalla decarbonizzazione della produzione, ai programmi di riciclo o anche di usato. Quella dell’usato vintage è una moda che coinvolge molto le generazioni Z e Alpha negli Stati Uniti, mentre in Cina, ad esempio, c’è un grosso mercato di noleggio degli abiti”.
In conclusione c’è un messaggio di speranza. “In fin dei conti moda significa abitudine, e le giovani generazioni possono cambiare un’abitudine molto in fretta. L’importante oggi è che si chieda alle aziende trasparenza e onestà”.