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Schermaglie di febbraio 2011

Quest’anno ricorre il trentesimo anniversario di un evento mediatico che ha segnato la storia della televisione italiana: la diretta per il salvataggio di Alfredino Rampi. Quasi tutti ricordano la vicenda del bambino di sei anni caduto in uno strettissimo pozzo artesiano a Vermicino, nella campagna romana, e tragicamente deceduto parecchie ore dopo nonostante gli sforzi dei soccorritori. Di fronte a questo avvenimento la Rai produsse una lunghissima diretta, durata oltre diciotto ore, documentando tutte le fasi dei tentativi di salvataggio del bambino. L’intero palinsesto fu sospeso e le immagini trasmesse a reti unificate, contribuendo a suscitare un’attenzione spasmodica da parte del pubblico. È stato calcolato che ben 21 milioni di italiani abbiano seguito la trasmissione. Persino l’allora presidente della Repubblica, Pertini, accorse sul luogo delle operazioni dove già si radunavano decine di giornalisti e semplici curiosi. Il significato ultimo dell’evento può essere rappresentato dalle parole conclusive di Giancarlo Santalmassi, voce narrante della diretta: «Volevamo vedere un fatto di vita e abbiamo visto un fatto di morte». L’atteggiamento nei confronti dell’accaduto si era caricato immediatamente di profondi significati simbolici. Alla televisione non fu demandato il semplice compito di registrare una notizia, ma quello di attribuire significato alla terribile vicenda che veniva mostrata. La tv si era già rivelata nel corso degli anni come “finestra sul mondo” in maniera più pervasiva della radio o dei giornali, ora nuovi elementi irrompevano a dare forza alle immagini: da un lato la creazione di un pubblico televisivo sempre più avvezzo ai meccanismi di produzione delle notizie e quindi desideroso non solo di “vedere” la realtà, ma di forgiarla a uso dei propri desideri e delle proprie categorie culturali.
 
In secondo luogo la consapevolezza degli addetti ai lavori, di cui Santalmassi era un rappresentante tipico, che il pubblico non aspettava tanto notizie quanto narrazioni di storie. Successivamente si è spesso rimproverato al mezzo televisivo di aver trasformato la tragedia in un film, ma forse sarebbe meglio dire che la cronaca si trasformava in tragedia, da sempre una forma della narrazione. L’arrivo di Pertini, i commoventi tentativi dei volontari, il pompiere che cercava di consolare il bambino e i pianti della vittima registrati dai microfoni, si trasformavano tutti in elementi di una precisa strategia mediatica che però non era soltanto veicolata dall’alto del mezzo televisivo, ma rispondeva a un effettivo bisogno collettivo di simbolizzare l’accaduto. Questo implicito equilibrio tra racconto dallo studio, diretta televisiva e partecipazione popolare è rimasto a tutt’oggi un unicum che neppure un fatto epocale come l’11 settembre è riuscito a riprodurre. La narrazione, da fenomeno collettivo come si era manifestato nel 1981, si è lentamente ritrasformata con un arricchimento continuo delle strategie retoriche di presentazione.
 
Indice delle cose notevoli
Un’interessante ricostruzione della vicenda che cerca anche di spiegare i meccanismi del rapporto tra cronaca e pubblico: Andrea Bacci, Alfredino nel pozzo. Tutta la storia della tragedia di Vermicino e la nascita della Tv del dolore, Torino, Bradipolibri, 2007


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