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Quando Berlusconi disinnescò la mina leghista della secessione. Scrive De Tomaso

Il Cavaliere resta un leader divisivo e controverso, ma gli va riconosciuto di aver svolto un ruolo fondamentale, con la sua discesa in campo, a difesa dell’unità nazionale. Ecco perché secondo Giuseppe De Tomaso

L’Italia degli ultimi 30 anni si è divisa tra berlusconiani e antiberlusconiani. Nessun leader politico è stato divisivo e controverso quanto e come il sire di Arcore. Il che non ha facilitato un’interpretazione condivisa del fenomeno berlusconiano e della lunga stagione che ne è scaturita. Ma c’è un effetto del berlusconismo che potrebbe essere accettato e fatto proprio a destra e a manca. Riguarda i primi passi di Forza Italia e i rivolgimenti generati dalla creatura politica del Cavaliere. In breve: senza la novità del partito berlusconiano, la Lega di Umberto Bossi, che era Lega Nord, non avrebbe rinunciato al traguardo della secessione, dell’indipendenza padana, e per l’unità del Belpaese sarebbero stati guai seri. L’ingresso nell’agone politico da parte di Berlusconi prima si rivelò un efficace fattore cerniera tra il nordismo del Carroccio (di cui ha disinnescato la mina) e il centralismo con venature sudiste della destra rappresentata da Alleanza Nazionale, e successivamente costrinse il movimento bossiano a costituzionalizzarsi, ad abbandonare i propositi eversivi e scissionistici della prima ora. Anche sul fisco, Berlusconi toglierà acqua al mulino elettorale leghista, ponendosi lui alla testa di quanti invocavano un’incisiva potatura della foresta tributaria.

Bossi reagì alla sua maniera di fronte alla sfida o alle sfide di sua emittenza. Ruppe l’alleanza. Fece saltare il governo. Riversò contro il Magnate delle tv approdato a Palazzo Chigi un linguaggio vietato ai minori di 18 anni. Ma non poté fare a meno, l’allora Senatur, di cambiare linea, pena l’irrilevanza politica della sua Lega o, tutt’al più, pena l’auto-condanna a un ruolo per metà di testimonianza e per metà di grillo parlante. Ci vorranno anni per ricucire lo strappo tra Bossi e Berlusconi, ma quando i due brinderanno alla pace ritrovata, la Lega risulterà solo una lontana parente di quella signora che sui prati di Pontida incitava ed eccitava alla spaccatura dello Stivale. Della serie: aveva prevalso, aveva vinto Berlusconi, prima soffiando alla Lega vasta parte del suo elettorato, poi inducendola a riporre nel cassetto tutti i progetti anti-sistema che aveva redatto agli albori della sua storia.

Non sappiamo quale sarà il verdetto degli storici sulla figura di Berlusconi e sul periodo da lui monopolizzato. Sappiamo solo che senza di lui, quasi certamente il pensiero della Lega delle origini avrebbe via via scompaginato il quadro politico e, insieme con esso, il tessuto unitario della nazione.

Basti pensare che, per inseguire la Lega sul suo terreno la maggioranza di centrosinistra varò da sola nel 2001 la riforma del Titolo Quinto della Costituzione che, a sua volta, ha fatto da battistrada al pressing delle Regioni del Nord e dell’attuale ministro Roberto Calderoli a favore dell’autonomia differenziata, mai come oggi pomo della discordia.

Chissà quale sarebbe stata la trama della matassa nazionale se la Lega di Bossi avesse avuto campo libero nel centrodestra di fine ventesimo secolo. Molto probabilmente avrebbe preteso e forse condotto al traguardo una riforma al cui confronto il nuovo Titolo Quinto (2001) già ardito, eccentrico e pericoloso per la pletora, tra Stato e Regioni, delle materie concorrenti ammesse (23), avrebbe fatto la figura di una timida riverniciata all’edificio statale. Insomma, l’autonomia differenziata, di cui da mesi si discute animatamente, avrebbe visto la luce con qualche decennio d’anticipo e nella forma più radicale possibile, con buona pace di tutti i sostenitori e custodi dell’unità nazionale. Ora, non è detto che il proposito di Calderoli sia coronato dal successo, alla luce della mobilitazione che si prefigura in parecchie aree del Paese e delle stesse perplessità diffuse nell’attuale coalizione di governo. Né è detto che il testo finale, in caso di compromesso, possa soddisfare in pieno le aspirazioni del ministro leghista e del suo partito di riferimento. L’ideale sarebbe lasciar perdere ogni tentativo di irrobustire il regionalismo, visto che l’esperienza delle Regioni non merita neppure un 6 politico in pagella, come già immaginava e temeva Alcide De Gasperi (1881-1954), leader lungimirante che fece di tutto per evitare di mettere nella propria agenda di governo il battesimo di una ventina di staterelli. Ma siccome, malgrado gli errori a cascata, le Regioni sono vive, vegete e cariche di potere, non rimane che cercare di limitarne i danni.

Tocca a Giorgia Meloni aggiornare alla bisogna (dello Stato unitario) la strategia di contenimento delle richieste leghiste (a tutto esclusivo vantaggio delle Regioni), strategia già sperimentata con successo dal primo Berlusconi, quello che si affacciò e s’impose sul proscenio politico tre decenni addietro. Non sappiamo come la presidente del Consiglio affronterà il tema scottante dell’autonomia differenziata quando la discussione entrerà nel vivo, perché di solito in Italia gli animi si accendono quando le partite stanno per terminare. Ci auguriamo solo che Giorgia Meloni riesca a disinnescare ogni mina sulla strada della coesione nazionale.

L’esempio di Berlusconi sul rapporto Nord-Sud può rivelarsi istruttivo al riguardo. Al Cavaliere va dato atto di aver neutralizzato la Lega nella sua fase, quella del separatismo, più insidiosa per l’Italia ereditata dalle lotte risorgimentali. Poi, la rivoluzione liberale promessa dal Cavaliere è rimasta uno slogan, un auspicio. E così molti altri propositi. Ma, di certo, non va negato a Berlusconi il riconoscimento di aver contribuito in modo decisivo, con la sua discesa in campo, alla tenuta istituzionale della Penisola. Un risultato che ora tocca alla Meloni difendere dai nuovi assalti in corso.



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