Dopo la dichiarata incompatibilità col fascismo, Giorgia Meloni ora farebbe bene a riscoprire la destra risorgimentale italiana e la destra churchilliana, o gollista, europea. Il commento di Giuseppe De Tomaso
Nella lettera al Corriere della Sera la presidente del Consiglio ha scritto chiaro e tondo di essere incompatibile con fascismo, il che forse metterà fine a uno scontro politico che stava per scuotere la stessa maggioranza di governo. Nei panni di Giorgia Meloni noi avremmo già dichiarato da tempo l’adesione ai valori dell’antifascismo. E non già per arrenderci o per fermare il pressing in tal senso da parte di avversari, rivali e alleati. E neppure per quieto vivere o per un calcolo di convenienza politica. Lo avremmo fatto, cioè avremmo detto peste e corna del fascismo, per una semplice ragione: la destra democratica europea e la destra italiana (sempre quella democratica, si capisce) non c’entrano nulla con il credo mussoliniano. Anzi, se non fosse stato per un signore di nome Winston Churchill (1874-1965), un liberal-conservatore che ha reagito da eroe solitario alla tracotanza di Adolf Hitler (1889-1945) quando già l’Occidente democratico si trovava con un piede nella fossa dell’inferno totalitario, oggi staremmo a raccontare un’altra storia, la storia di un rozzo ex pittorucolo austriaco capace di soggiogare con la violenza di Stato il continente più prodigo, nei secoli, di conquiste civili.
Alle corte. Forse Giorgia Meloni avrebbe avuto qualche motivo nel frenare le sollecitazioni a dire “evviva l’antifascismo” se la sua creatura politica (Fratelli d’Italia) fosse rimasta un marginale mini-partito, nostalgico ed identitario, arroccato sul 2% dei voti. Ma dal momento che già a destra si era registrata la svolta – quella dal Msi ad Alleanza Nazionale – di Gianfranco Fini e Giuseppe Tatarella (1935-1999) e dal momento che oggi i sondaggi attribuiscono alla formazione meloniana una consistenza elettorale sul 30%, o giù di lì, non si comprende per quale ragione la presidente del Consiglio abbia fatto uso del freno a mano nel prendere definitivamente le distanze, fosse pure semanticamente, da ogni riferimento al Ventennio e alla sua tradizione culturale. A meno che ci sia tuttora qualcuno in grado di dimostrare, alla Meloni e ai suoi principali consiglieri, che il boom di consensi elettorali tributati a FdI sia figlio di un ritorno di fiamma tra vasti settori della popolazione italiana e il modello fascista imposto dal Mascellone di Predappio. Il che, obiettivamente, non sarebbe in grado di sostenerlo, e di immaginarlo, nemmeno il più mussoliniano tra gli estremisti di destra in circolazione.
Viceversa. Se il partito di Meloni ha fatto tombola alle ultime politiche, consentendo alla sua leader di essere la prima donna a scalare la vetta del potere governativo, il merito va attribuito alla nuova percezione diffusa tra gli italiani su FdI, alla presenza in FdI di esponenti moderati provenienti da esperienze centriste, al fatto che il manganello e l’olio di ricino sono strumenti di coercizione riconducibili solo a un secolo addietro, alla convinzione che il pragmatismo, anche a destra, ha preso il sopravvento sull’ideologismo illiberale, sul nazionalismo spinto del passato e che la democrazia italiana non correrebbe alcun pericolo se si realizzasse l’alternanza tra le forze politiche più distanti all’interno del parlamento.
Poi. Poi ci saranno pure le contraddizioni all’interno del governo in carica e dello stesso partito guidato da Giorgia Meloni. Ci saranno pure alcune scelte discutibili e poco coerenti con un’impronta convintamente europeistica nella risoluzione dei problemi, ad esempio sulla difesa di alcune categorie e di alcune corporazioni. Ci saranno pure alcune impostazioni cripto-identitarie non condivisibili, specie da chi ritiene che il sovranismo sia una iattura, e non una soluzione, anche se esplicato nelle forme, più edulcorate, elaborate da Palazzo Chigi. Ci saranno pure molti “se” e molti “ma”. Tuttavia è indubbio che, in Italia, non vi sia alcun Annibale fascista alle porte, che la stragrande maggioranza del Paese si riconosca nella sua Costituzione ontologicamente e culturalmente antifascista e che gli stessi elettori di FdI (non foss’altro che per un dato algebrico) sono quasi tutti antifascisti, altrimenti non si spiegherebbe il balzo dall’originario 2% all’attuale oscillante 30%, rilevato dagli ultimi sondaggi demoscopici. Tutti folgorati sulla via Predappio, i nuovi votanti di FdI?
Sarebbe bastata solo questa considerazione, da parte di Meloni, per rompere da sùbito gli indugi e porre la parola fine su una “querelle” ideologica che rischiava, e chissà se rischia ancora, di durare in eterno, con buona pace di quanti invocano una definitiva legittimazione reciproca tra i duellanti nell’arena politica italiana e di quanti si aspettano un impegno esclusivo, nella maggioranza, rivolto alla risoluzione delle questioni concrete che più preoccupano vecchi e giovani. Non sarebbe stato e non sarebbe un cedimento da parte della presidente del Consiglio. Né sarebbe stato il prologo per altre richieste di abiura da parte degli avversari. Sarebbe stata, invece, solo la conferma, la prosecuzione di quanto aveva già revisionato la destra di Fini e Tatarella nel congresso di Fiuggi (1995). Sarebbe stata solo la presa d’atto, numeri elettorali alla mano, che un partito di maggioranza relativa non può essere composto da irriducibili nostalgici, visto che ha fatto incetta di voti in precedenza tributati a sigle politiche palesemente antifasciste.
Infine. L’Italia ha conosciuto due destre: quella liberale dei Cavour e dei Minghetti e quella illiberale e antidemocratica dei Mussolini e dei Farinacci. Idem l’Europa, che ha conosciuto sia la destra churchilliana e gollista sia la destra reazionaria e oscurantista. Quale occasione migliore ha ora a disposizione Meloni per dichiarare, papale papale, a quale tradizione di destra vuole ispirarsi e rifarsi? Dovrebbe essere questo il tema del suo prossimo articolo dopo l’intervento di oggi sul Corriere della Sera. Già Tatarella si dichiarava gollista. Basterebbe, a Giorgia Meloni, solo riprendere e condividere gli interventi del “ministro dell’armonia” del primo governo Berlusconi per spegnere definitivamente uno scontro infuocato che più anacronistico non si può. Sì, la destra italiana ha il dovere di essere e dichiararsi antifascista. E per essere convincente deve ispirarsi alla Destra Storica italiana e alla destra europea di Winston Churchill (1974-1065) e Charles del Gaulle (1890-1970). Tutto il resto è pretattica più o meno identitaria.