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Rischi del presidenzialismo? L’approdo di un influencer al Quirinale

Già Kissinger ha messo in guardia dalla prospettiva di una politica teleguidata dai giganti della Rete. L’elezione diretta accelererebbe questa involuzione democratica. L’avvertimento di De Tomaso

Che, da tempo, l’Italia abbia bisogno di una maggiore stabilità politica, non ci piove. Che la breve durata dei governi di Roma costituisca uno svantaggio nelle relazioni internazionali, è acclarato. Che ogni governo debba poter disporre di più granitiche garanzie per portare al termine il proprio programma ed essere giudicato alla fine della legislatura, è scontato. Che il presidente del Consiglio, chiunque egli sia, debba disporre del potere di revoca di un ministro non all’altezza, è auspicabile. E potremmo continuare. Non si comprende, però, perché il consolidamento dei poteri dell’esecutivo e del suo capo debbano derivare, per forza, dall’elezione diretta del presidente della Repubblica o del primo ministro. Non già perché la soluzione presidenziale o l’investitura popolare del premier siano più pericolose di una bomba per l’edificio della democrazia, dal momento che i due sistemi testé citati sono compatibili con i princìpi costituzionali liberali, quanto perché l’evoluzione degli assetti sociali, politici, mediatici ed economici dell’Occidente oggi sconsiglia vivamente il ricorso a forme di legittimazione (quasi) referendaria.

Tuttora i casi di Stati Uniti e Francia vengono giudicati come esempi di presidenzialismo e semi-presidenzialismo ben funzionanti. Ma questo giudizio resisterà a lungo? Perché un sistema presidenziale o semipresidenziale possano sprigionare le loro migliori energie decisionali, è fondamentale che duellanti e schieramenti in campo riconoscano la propria sconfitta elettorale, quando ciò si verifica, e non si mettano di traverso contro i vincitori. È indispensabile, cioè, una nazione pacificata, una società collaborativa/competitiva, ma non conflittuale. Stati Uniti e Francia possono ritenersi al di fuori di questi problemi alla luce degli ultimi eventi? In America, il perdente Donald Trump, dopo aver acceso gli animi dei propri sostenitori, ha fatto il diavolo a quattro per impedire al vincente Joe Biden di insediarsi alla Casa Bianca. E chissà quali livelli di radicalità raggiungerebbe un’eventuale nuova contesa tra il presidente Usa in carica e il suo predecessore. Per fortuna le istituzioni americane sono solide, come si è visto in occasione degli assalti dei militanti trumpiani tesi a impedire l’incoronazione di Biden. Ma una democrazia, anche la più collaudata, non potrebbe resistere a lungo se fosse sottoposta a ininterrotti choc, a scossoni infiniti in grado di debilitare anche l’organismo più sano. Né potrebbe resistere molto un tessuto sociale sottoposto a strappi quotidiani. Strappi oggi, strappi domani, la lacerazione definitiva del Paese diventa solo questione di tempo.

Qualcosa di simile potrebbe verificarsi anche in Francia, dove pure è stata sperimentata, in passato, una sofferta coabitazione tra opposti, tra il gollista Jacque Chirac (1932-2019) alla presidenza della Repubblica e il socialista Lionel Jospin alla guida del governo. Nel futuro prossimo, però, un’ipotetica convivenza fra avversari potrebbe risultare più incandescente di un vulcano in attività sia perché la società francese è spaccata in due come una mela, sia perché la contrapposizione tra i leader in campo è così profonda, da far temere il peggio per la tenuta delle istituzioni.

Anche l’Italia non scherza sul problema della legittimazione vicendevole tra gli sfidanti, senza la quale – temiamo – un sistema presidenziale prenderebbe sùbito la strada del Sud America, anziché la direzione del Nord America. Si fa ancora fatica, nel Belpaese, dopo il voto, ad accettarsi reciprocamente, tra vittoriosi e sconfitti. Non a caso i Costituenti, nel secondo dopoguerra, optarono per il parlamentarismo puro. Vollero bloccare sul nascere il rischio di un ulteriore accaloramento del clima politico, che sarebbe stato assai più probabile, per non dire inevitabile, in una repubblica presidenziale o in una repubblica col governo provvisto di vigorosi poteri. La cautela dei Costituenti di sicuro non giovò alla velocità decisionale e alla stabilità governativa, ma servì da bromuro contro le pulsioni, le eccitazioni estremistiche che covavano e, spesso, esplodevano in tutto lo Stivale.

Che fare, allora? Lasciare tutto così com’è, nel segno di quieta non movere et mota quietare? No. Non mancano le soluzioni per rafforzare il ruolo dei governi senza rischiare di provocare rischi sismici nelle istituzioni e nella società. L’introduzione della sfiducia costruttiva (funziona benissimo in Germania) come strumento di dissuasione contro le tentazioni crisaiòle può essere il punto di partenza. Altri correttivi potrebbero essere il voto di fiducia (a Camere riunite) dato solo al presidente del Consiglio; il già accennato potere da assegnare al premier di revocare (oltre che di proporre) la nomina dei ministri; l’inemendabilità delle leggi di bilancio, in particolare della legge finanziaria; la possibilità offerta al premier di chiedere lo scioglimento anticipato delle Camere, in caso di paralisi parlamentare. Tutti accorgimenti capaci di irrobustire il sistema parlamentare senza scombussolare tutto, come avverrebbe con il varo di un modello presidenziale.

Ma ci sono altre considerazioni che remano, oggi, contro l’opportunità di importare in Italia il modello americano o il modello francese o il fallito modello israeliano basato sull’elezione diretta del primo ministro. La più sottile delle quali può vantare una firma d’autore, e al di sopra di ogni sospetto: quella di Henry Kissinger, il più celebre e potente Segretario di Stato nella storia americana. Già dieci anni addietro, nel saggio dal titolo Ordine mondiale, Kissinger metteva tutti in guardia con queste riflessioni: “Le campagne presidenziali sono sul punto di trasformarsi in competizioni mediatiche tra i grandi operatori di Internet. Al posto dei tradizionali dibattiti di un tempo sul contenuto dell’attività di governo, avremo candidati ridotti a portavoce di un’operazione di marketing, condotta con metodi la cui intrusività soltanto una generazione addietro sarebbe stata considerata roba da fantascienza. Il ruolo principale dei candidati potrebbe diventare la raccolta dei fondi, invece dell’elaborazione dei programmi. L’operazione di marketing è progettata per trasmettere le convinzioni del candidato, oppure le convinzioni espresse dal candidato sono il riflesso di un lavoro di ricerca in termini di “big data” su probabili preferenze e pregiudizi degli individui? Può la democrazia evitare un’evoluzione verso un esito demagogico, basato sul gradimento emotivo di massa anziché sul processo ragionato immaginato dai Padri Fondatori?”. Kissinger si chiedeva pure se in futuro potrà essere accettabile un divario sempre più largo tra le qualità necessarie per farsi eleggere e le qualità necessarie per governare. Domande da brivido, ancora più angoscianti in un sistema politico a elezione diretta.

Ricapitoliamo. Kissinger lascia intendere che, in avvenire, i candidati alla Casa Bianca saranno burattini nelle mani dei giganti della Rete e che il loro compito centrale sarà quello di raccogliere fondi, grazie a sapienti strategie di marketing. Poi si domanda quali doti essi avranno, cioè non avranno, per guidare una nazione. Come dargli torto? Come sottovalutare le sue preoccupazioni? La prospettiva è di ritrovarsi, a breve, tra due o tre influencer che si contendono il vertice di uno Stato. E siccome, oggi, persino le parole, già svilite e svuotate di significato, stanno cedendo il passo alle emozioni, alle impressioni, alle immagini, agli emoticons, agli stickers, quella che fino a ieri poteva apparire come la più inverosimile e fantapolitica tra le previsioni si va prefigurando come la più verosimile, realistica e inquietante. Altro che evoluzione delle democrazie. È già in atto un’insidiosa involuzione.

Purtroppo, il direttismo accelererebbe lo scenario abbozzato e paventato da Kissinger. Una ragione in più per non cadere nella sua trappola e per affidarsi a riforme che coniughino rappresentanza e governabilità. Meglio non rischiare l’approdo di un influencer al Quirinale.

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