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Un secolo di impero americano, da Panama alla Cina. Dialogo con Giovanna Pancheri

Intervista a Giovanna Pancheri, autrice del libro “L’impero americano”, su come la politica estera degli Stati Uniti sia cambiata nel corso dell’ultimo secolo e su come Biden – o chi per lui dopo le elezioni del 2024 – si porrà nei confronti di Cina e Russia sullo scacchiere globale

La politica estera degli Stati Uniti ha definito la storia recente dell’Occidente, dalla dottrina Monroe fino all’atteggiamento (sorprendentemente allineato) di Trump e Biden nei confronti della Cina. Di questi duecento anni di proiezione americana oltre i propri confini parla Giovanna Pancheri ne “L’impero americano”, edito da Solferino, e con lei ho discusso di alcune delle strategie che condizionano ancora oggi gli equilibri globali. L’intervista è stata registrata negli Utopia Studios.

Le presidenze negli Usa hanno una forza notevole e, volendo, si può fare una cronologia della politica estera in funzione dei presidenti in carica. Già dai tempi di Theodore Roosevelt si parlava di un modo diverso di gestire la politica estera, che andasse oltre il punto di vista militare.

L’operato di Roosevelt è stato guidato da quella che lui chiamava la politica del grosso bastone, cioè il principio di esibire la propria potenza quando necessario, ma senza utilizzarla. Il libro parte dal Sudamerica, da Panama, perché in America Latina quella fu la sua filosofia: quando capiva che non riusciva ad ottenere il risultato che voleva tramite negoziati tradizionali esibiva la propria flotta o si alleava con i ribelli locali, per poter poi raggiungere i propri obiettivi. La stessa cosa è stata fatta in estremo oriente, anche perché in quegli anni il Giappone era una potenza importante che si stava espandendo e Roosevelt si pose un po’ da paciere per ottenere un trattato che limitasse questa espansione territoriale. Da lui nasce l’idea di poter ottenere risultati diplomatici senza essere protagonisti di una vicenda, ma accompagnando lateralmente la situazione.

Parte di questa politica estera si è anche rivelata un po’ un boomerang, perché spesso gli intenti originali di sostenere forme di governo democratiche, magari contro la minaccia di un regime comunista, sono stati perseguiti attraverso figure che si sono rivelate altrettanto dispotiche. Oggi nel mondo c’è ancora questa immagine degli Usa che interferiscono negli affari degli altri paesi?

Questo sentimento c’è ed è ancora molto forte. Se nei paesi dell’Europa dell’est, da poco entrati nella Nato o con la forte volontà di farlo, domina un sentimento generalmente pro-americano, in altri dove senza aver avuto il comunismo al governo ci sono stati partiti comunisti molto forti, come da noi o in Francia, resta un antiamericanismo marcato e basato sull’erronea idea di fondo che nella Guerra fredda ci fosse una terza via percorribile, alternativa a quella americana e a quella russa. La verità però è che anche adesso non si può prescindere dall’operare una scelta di campo e da quando ci sono potenze così grandi e importanti abbiamo sempre dovuto scegliere tra il modello statunitense, che avrà i suoi limiti ma è un sistema democratico, e i modelli autocratici. Nel libro cerco di spiegare che si parla spesso di imperialismo americano in modo troppo leggero, magari paragonandolo a imperialismi che miravano all’espansione territoriale come hanno fatto l’impero russo o quello cinese, entrambi ancora con un occhio all’occupazione fisica di altri territori. Gli Usa hanno esercitato una soft diplomacy, un’influenza a livello culturale, economico e indirettamente militare, costruendo magari le loro basi in paesi alleati che erano strategicamente importanti o cercando di avere influenza nelle realtà mediorientali. Gli errori sono stati sicuramente tanti, ma è un tipo di imperialismo diverso rispetto agli altri.

Ci sono due situazioni che hanno evidenziato le crepe dell’imperialismo non americano: la pandemia e la guerra in Ucraina. Dopo anni di fascinazione per l’uomo forte Putin e per la sorveglianza di Stato cinese, che tutti i problemi sembrava in grado di risolvere, oggi si è un po’ riequilibrato a livello di narrazione globale il ruolo degli Usa e quello delle autocrazie?

Noi siamo uno dei paesi europei in cui il sostegno all’Ucraina vacilla di più. È vero che gli eventi degli ultimi tre anni dimostrano ulteriormente che per quanto sia perfettibile il modello democratico è la parte da scegliere, ma purtroppo c’è ancora tanta disinformazione a riguardo. Parlando del cappello militare tante volte si sente dire che non possiamo essere vassalli degli Usa, oppure si muovono critiche alla Nato quando si deve aumentare il contributo economico che dovremmo dare a questa organizzazione. Io invito però a riflettere, in questo momento di minaccia così vicina all’Europa, su quanto dovremmo spendere in termini di difesa per sentirci del tutto sicuri se fossimo indipendenti dall’Alleanza atlantica (molto di più…)

Cosa si può leggere oggi nel passaggio tra Trump e Biden sulla questione cinese, su cui l’attuale presidente è forse stato ancora più deciso?

C’è stata sicuramente continuità. Con Nixon ci fu l’apertura verso la Cina, motivata all’epoca soprattutto dalla questione Vietnam poiché l’allora presidente si era reso conto che gli unici che potevano aiutarlo a dialogare con i vietcong erano proprio i cinesi. Tra l’altro al contempo quella situazione permise un’apertura con Mosca, l’inizio di un percorso molto lungo verso il 1989. Con la Cina negli anni si è mantenuto questo rapporto di convenienza del momento e tra Trump e Biden la situazione è stata la stessa: la Cina ha avuto una crescita economica importantissima, ci sono settori strategici su cui gli Usa vogliono proteggersi dalla concorrenza cinese e Trump ha cominciato una politica dura fatta di dazi e scontri commerciali aspri. Se è vero che Biden verso l’Europa è tornato a spingere sul libero scambio e su un rapporto privilegiato, sulla Cina è rimasto invece abbastanza in scia con il predecessore. Tuttavia, sul fronte Ucraina Biden ha capito che un dialogo con la Cina era necessario: a Bali ci fu quel primo incontro con Xi in cui si iniziò a parlare di un coinvolgimento cinese nel processo di pace tra Russia e Ucraina, passaggio che può essere una chiave fondamentale per la soluzione del conflitto.

Cosa succederà nella politica estera americana dopo le prossime elezioni?

Dipende molto innanzitutto da chi sarà il contendente repubblicano, non sappiamo ancora se Trump potrà effettivamente correre per la nomination viste le sue questioni legali. Paradossalmente, uno dei pochi candidati repubblicani contro cui Biden potrebbe vincere sarebbe proprio Trump, proprio per le sue scelte di politica estera. Anche se ogni presidente ha sempre avuto una propria linea ci sono fondamenta che non cambiano e una di queste era sempre stato il rapporto con l’Europa, mentre con Trump per la prima volta questo anello è caduto, con l’ex presidente che ha sostenuto apertamente la Brexit e ha creato difficoltà nei rapporti con le istituzioni europee, nella prospettiva di creare questo rapporto di forza tripolare sulla direttiva Pechino-Mosca-Washington. Nella guerra in Ucraina l’Europa è parte in causa e avere un presidente Usa che tiene questo tipo di atteggiamento di distanza verso gli alleati europei può di certo cambiare le carte in tavola.

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