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L’inevitabilità della tragedia. Il secolo di Henry Kissinger

Di Alessandro Strozzi

In occasione dei cento anni di Henry Kissinger, Formiche.net dedica uno speciale all’ex segretario di Stato degli Stati Uniti d’America, raccogliendo contributi e riflessioni su una delle personalità più influenti del Novecento. Qui ospitiamo il commento di Alessandro Strozzi

Quando il cardinale Richelieu morì nel 1642 papa Urbano VIII sentenziò: “Se c’è un Dio, il cardinale di Richelieu avrà molto di cui rispondere. Se non c’è… beh, ha avuto una vita di successo”. L’eminenza rossa artefice delle paci di Westfalia visse per 57 anni. Diversamente, Henry Kissinger – nato Heinz Alfred Kissinger – punta al raddoppio. Il 27 maggio raggiungerà il traguardo dei 100 anni. Parafrasando Urbano, avrà qualcosa di cui rispondere? La storia ce lo dirà, ad ora la data dell’esame è rimandata.

Nato a Furth, Germania, Kissinger e la sua famiglia (di origine ebraica) fuggirono dal regime nazista e si stabilirono negli Stati Uniti nel 1938. Qui inizia la sua carriera accademica, sino a diventare professore all’Università di Harvard. All’inizio del 1943 fu chiamato a prestare servizio nell’esercito americano nel teatro europeo. Il superiore Fritz Kraemer, colpito dal ragazzo, lo propose per l’unità di intelligence militare. Così Kissinger approdò al Counter Intelligence Corps. Tornato in America, si è laureato in scienze politiche nel 1950 ad Harvard, distinguendosi per la sua tesi di laurea intitolata The Meaning of History: Reflections on Spengler, Toynbee, and Kant, e nel 1954 conseguì il dottorato. Nel 1952 iniziò a lavorare come consulente del direttore dello Psychological Strategy Board e a lanciare la rivista Confluence; pochi anni dopo lo troviamo al Council on Foreign Relations e tra il 1956 e il 1958, è direttore dello Special Studies Project, sponsorizzato dal Rockefeller Brothers Fund. Nuclear Weapons and Foreign Policy (1957) fu il volume che lo portò alla ribalta in materia di dottrina nucleare: contrariamente alla policy di ritorsione nucleare massiccia all’attacco sovietico, propose un modello a “risposta flessibile”, combinando l’uso di armi nucleari tattiche e forze convenzionali. La reputazione acquisita di esperto politologo gli ha consentito di assumere il ruolo di consigliere del governatore di New York e aspirante presidente Nelson Rockefeller.

In Kissinger il connubio tra la dimensione dello studioso e quella dell’attento tessitore di relazioni si fa largo in alcune delle sfere più influenti della società statunitense. La competenza di un Consigliere non è sufficiente, va accompagnata dall’influenza sul Principe per cambiare le cose. Insomma, Henry Kissinger incarna il “re filosofo”, uno dei pochi casi di grandi studiosi e accademici riusciti ad esprimere nella pratica il loro sforzo teorico. Kissinger fu infatti consigliere per la sicurezza nazionale dal 1969 al 1973 e segretario di Stato dal 1973 al 1977, durante le presidenze Nixon e Ford.

La fase da cui è possibile distillare il suo pensiero strategico coincide con quella dell’amministrazione Nixon, in una fase di crisi per la politica estera statunitense. In primo luogo, la decisione di non terminare il coinvolgimento in Vietnam, evitando il maggiore rischio di un  brusco ritiro, che  si temeva portasse  alla debacle immediata del Vietnam del Sud, danneggiando la posizione americana in Asia e non solo. Già qui emerge il dilemma etico delle grandi nazioni, la scelta tra due opzioni che si vorrebbero evitare entrambe, con la consapevolezza dell’impossibilità di astenersi da una decisione: ecco l’inevitabilità della tragedia nella storia umana e dello statista. Valga da esempio del pensiero strategico di Kissinger il riavvicinamento diplomatico con la Cina comunista, da cui gli Stati Uniti si erano allontanati dal 1949, dopo la conclusione della guerra civile e la fuga di Chiang Kai-shek a Taiwan. Con il supporto di Kissinger, il Presidente Nixon compì un fondamentale viaggio in Cina nel febbraio 1972: la prima visita in assoluto di un presidente americano nel Paese. Kissinger ha supportato il riavvicinamento tra i due paesi per fare causa comune contro l’Unione Sovietica. La Cina non era un alleato, ma un male minore. Difficile negare l’impatto che questa scelta ha avuto sul mondo contemporaneo.

Vietnam, Cina, Urss: banchi di prova del pensiero di Kissinger. Qual è questo pensiero? Una premessa: l’ascesa di Hitler lasciò un’impronta indelebile sugli intellettuali ebrei fuggiti dalla Germania. Questi uomini e donne — Leo Strauss, Hannah Arendt, Hans Morgenthau e per l’appunto Kissinger — tentarono a vario titolo di affiancare, alla naivitè della giovane nazione americana, la gravitas della vecchia Europa. In tal senso Kissinger può essere considerato il Chirone europeo dell’Achillea politica estera americana, attraverso un’impostazione dottrinale che affonda le sue radici nel realismo classico.

Corollario della sopracitata “tragicità” delle relazioni tra potenze è la prospettiva declinista (mutuata da Spengler) di Kissinger sulla potenza degli Stati Uniti. Non nel 2023, ma negli anni ‘70. Da qui l’idea di spezzare il fronte comunista con la diplomazia triangolare, di fronte ad una Russia che era considerata aver raggiunto la “parità strategica”. Gli Usa devono pensare strategicamente, non avendo la supremazia necessaria ad affrontare il loro imperial overstretch.

Concetti quali interesse nazionale, equilibrio di potere e razionalità, sono i pilastri delle relazioni tra stati-nazioni, immersi in un contesto anarchico, che impedisco loro di sprofondare nel caos. L’approccio di Kissinger alla diplomazia presuppone che l’ordine internazionale sia “legittimo”, ovvero accettato da parte degli Stati principali. Di fronte alla tragedia storica i principi morali devono essere dosati con attenzione, pena posizioni ideologiche devastanti per l’ordine costituito. Nelle relazioni tra Stati, l’ordine è precondizione per l’efficacia della diplomazia.

Posizione nette di “giusto” o “sbagliato” possono essere pericolose tanto quanto il cinismo più becero. L’arte della strategia e della diplomazia è nelle sfumature, nel grigio. Facendo i conti con il mondo così com’è, non come si vorrebbe che fosse. Hope is not a strategy.

Certo, l’operato di Kissinger non è esente da critiche. Il suo coinvolgimento nella guerra del Vietnam — inclusa la negoziazione degli accordi di pace di Parigi e il bombardamento della Cambogia — è stato condannato da molte autorevoli voci, così come la gestione degli equilibri politici in Sudamerica. Al lettore l’onere di formarsi un’opinione, ricordando che si può imparare sia da esempi positivi, quanto da quelli negativi: di uno guardare i pregi per trarne esempio, dell’altro i difetti, per evitarli. Se Kissinger fu uno stratega fallace, lo fu nella teoria, o nell’esecuzione della stessa? E a prescindere dal successo, fu amorale?

In ogni caso, il contributo di Kissinger alla diplomazia contemporanea e futura emerge dalla sua eredità intellettuale, che sottolinea l’importanza di un approccio sistemico alle sfide globali, la cosiddetta grand strategy: la messa a sistema delle diverse leve di potere di una nazione — militare, diplomatica, politica, economica etc. — per il conseguimento di quelli che percepiscono come interessi nazionali. Eredità resa disponibile dalla sua vasta produzione letteraria, fonte di ispirazione, oltre che di approfondimento, per pubblici vasti, di ogni latitudine. Gli ultimi due volumi The Age of AI e Leadership – Six Studies in World Strategy, lo testimoniano.

Non possiamo sapere come sarà ricordato Henry Kissinger tra cento anni. Quel che è certo, è che questi primi cento sono bastati per proiettarlo nell’Olimpo dei grandi statisti della storia.  Non resta che augurare a Henry Kissinger un felice centesimo compleanno, nella speranza che lo festeggi con la cifra che più lo contraddistingue: l’equilibrio, si spera tra vecchi amici, e non tra potenze, almeno fino al prossimo incarico.

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