La nostra Pubblica amministrazione è spesso dipinta come sinonimo di complicazioni e ritardi. Ma ha bisogno di stabilità per lavorare: intanto va difesa, migliorata e rispettata, quale una delle roccaforti del nostro sistema democratico
È ormai radicato nel nostro comune pensare il bias cognitivo che ci induce a un’equazione apparentemente lampante: burocrazia uguale inefficienza, cioè la nostra Pubblica amministrazione è sinonimo di complicazione, ritardo, se non di corruzione.
E mai come in questi tempi, complice il susseguirsi di emergenze nazionali, la nostra burocrazia è stata oggetto di così diffusi giudizi di disvalore, anche da parte di uomini di Governo, e assalita così trasversalmente da un clima generale di sfiducia, se non di sospetto.
Eppure quell’equazione è quantomeno ingenerosa: “La burocrazia è il motore dello Stato”, ha notato magistralmente Cassese qualche giorno fa, e dalla sua “potenza” dipendono in definitiva le prestazioni della “macchina”.
Un motore oggi investito di cruciali compiti decisionali, da svolgere lungo il sentiero stretto dei suoi margini di discrezionalità, in teoria tutelato dal principio dell’insindacabilità nel merito dell’azione amministrativa: in realtà esposto a controlli ed eccepibilità molteplici, non solo ex post. Ciò anche a causa dell’estrema facilità con cui i suoi operatori possono essere chiamati a rispondere del proprio operato, su più fronti e con impari proporzione.
Essi possono incorrere in almeno quattro tipi di responsabilità – penale, civile, disciplinare, contabile – la cui regolamentazione si è dilatata e stratificata nel tempo, in maniera poco coordinata e convergente, prefigurando esiti sanzionatori non univoci, perlopiù incerti e imprevedibili. Per questo, sull’onda del rilancio nazionale da supportare, abbiamo assistito negli ultimi anni a uno sforzo del legislatore di combattere il pernicioso fenomeno della burocrazia difensiva, nel delimitare il perimetro dei diversi controlli giudiziali, al fine di bilanciare le istanze di legalità e di regolarità con quelle di efficienza e di risultato. Emblematici in tal senso sono gli interventi legislativi del 2020 sui temi dell’abuso d’ufficio e della responsabilità erariale, incardinati in una più ampia misura di semplificazione delle procedure.
Così lo stesso Mario Draghi, nel 2021, alla Corte dei Conti: “Occorre evitare gli effetti paralizzanti della fuga dalla firma”, laddove un quadro di norme “complesse, incomplete e contraddittorie” finisce per “scaricare sui funzionari pubblici responsabilità sproporzionate”, risultato di “colpe e difetti a monte”. Così persino la Corte Suprema, nel 2022, giudicando centrati quegli interventi: la tendenza della giurisprudenza a “travalicare i rigidi paletti” fissati dal legislatore “deve individuarsi come una delle principali cause della sempre maggiore diffusione del fenomeno della burocrazia difensiva”, a generare il quale basta il solo rischio di coinvolgimento in procedimenti giudiziali dagli alti costi “materiali, umani e sociali”.
E dire che proprio ora i funzionari pubblici sono chiamati a gran voce a osare di più nel loro agire, cioè a ricorrere coraggiosamente agli spazi di manovra loro concessi e a non ripiegare conservativamente sul pilota automatico delle prassi guidate: chiamata non facile, sia pur corroborata da una promessa genuina e collettiva di fiducia. D’altra parte quello della dialettica tra legislazione e giurisprudenza rispetto ai confini dell’autonomia decisionale della Pubblica amministrazione è un tema ricorrente e scivoloso.
Questa volta però sembra ci siano i presupposti per un rinnovato patto tra le funzioni dello Stato, perchè non si sconfini nel campo della discrezionalità della Pubblica amministrazione: proprio la fiducia infatti spicca tra i principi-faro del nuovo corso del Consiglio di Stato, il massimo organo della nostra giustizia amministrativa, che ne ha fatto anche un caposaldo della riedizione del Codice appalti e il cui Presidente ha definito la discrezionalità stessa come “l’organo respiratorio” dell’amministrazione. Appaiono perciò eccessive le reazioni alla recente idea di limitare la portata del controllo concomitante della Corte dei Conti, fattispecie che peraltro non aiuta l’efficienza, nè il coraggio della firma, e mal si concilia proprio con il principio della fiducia. Eccessiva appare anche l’idea di abolire l’abuso d’ufficio, come rilevato dall’Anac.
Evitabile appare invece l’ulteriore apertura di credito alla Pubblica amministrazione con cui si vuole puntellare lo scudo erariale, soprattutto perché, mantenendo escluse le inerzie e le omissioni, si rischia di privilegiare un risultato rapido e a ogni costo, piuttosto che di qualità, o, peggio, di adombrare un esito prefigurato delle decisioni amministrative. Cosa che finirebbe per incentivare, anziché contrastare, il pilota automatico di cui si parlava.
Più che altro la nostra Pubblica amministrazione ha adesso bisogno di stabilità per lavorare: intanto va difesa, migliorata e rispettata, quale una delle roccaforti del nostro sistema democratico. Allora sì che il paradosso citato in proposito da un giurista si risolverà come scrisse Campanile: quel tale che non sapeva quale scegliere tra due pasti ugualmente invitanti alla fine non rimarrà indeciso fino a morirne. Perché li sceglierà entrambi e ne uscirà vincente.