Come può pensare di fare opposizione un partito senza identità? Esaurita la spinta dell’appuntamento elettorale poco prima della fine di giugno (ma si vota di nuovo tra sei mesi), il dibattito all’interno del Pd si è concentrato esclusivamente sul congresso (resa dei conti?) di ottobre, nella speranza che la fenice riesca una volta per tutte a rinascere dalle sue ceneri. Sentieri contorti privi di orizzonti condivisi hanno infatti creato tante, troppe anime all’interno del Partito Democratico, tradottesi, nell’assenza di una sintesi che fosse reale e non supposta, in un partito senza anima alcuna. Eppure leggendo i giornali (o magari recuperando lo smarrito e celebre contatto con il territorio) non sarebbe stato difficile trovare anche un solo tema su cui mettere alle strette la maggioranza e i suoi leader. E invece, in un’afosa serata di agosto, accade che il presidente della Camera Gianfranco Fini (già presidente di Alleanza Nazionale, già segretario del Msi e delfino di Giorgio Almirante) vada alla Festa nazionale del Pd a Genova e raccolga applausi scroscianti. «Un tempo se uno di destra partecipava ad un evento di sinistra e beccava applausi si chiedeva dove avesse sbagliato» ha commentato caustico uno che di queste cose se ne intende, Francesco Storace. Che cosa è successo al Pd? E che cosa succederà?
Apriamo con una banalità: il Pd non è un partito di sinistra. Su un campione di 8.000 interviste effettuate da Lorien Consulting nel corso dell’ultima campagna elettorale, meno di un quarto di coloro che hanno dichiarato la propria preferenza per il partito guidato da Dario Franceschini trovava la propria collocazione a sinistra. Una proporzione praticamente stabile rispetto al 2008, in un contesto socio-politico che vede una compressione (più o meno indotta) degli estremismi (sinistra e destra) e una crescita delle posizioni moderate (centrosinistra, centrodestra) e della non rappresentanza (nessuna autocollocazione, non so/non rispondo). A parità dunque di composizione interna dell’elettorato, al Partito Democratico mancano da un anno all’altro oltre quattro milioni di voti. Che come illustrato nella grafica, si sono dispersi in maniera piuttosto omogenea tra il non voto, l’Italia dei Valori, la Sinistra (Rifondazione+Pdci e Sinistra e Libertà) e in misura minore, ma altrettanto importante, verso l’Unione di Centro. Sembrerebbe un partito che fa acqua da tutte le parti. E infatti l’appuntamento di ottobre servirà non solo ai leader, pronti a un confronto che non è azzardato definire kafkiano, ma soprattutto all’elettorato e all’opinione pubblica per capire la direzione culturale che il Partito Democratico (nato, lo ricordiamo, da quasi due anni) deciderà di intraprendere. La formula attuale, una galassia composita e colorata, ha evidenti problemi di funzionamento. E così forse aveva proprio ragione Massimo D’Alema quando nel 1999, dieci anni fa, lanciò una puntuta critica alle idee di Romano Prodi. “I partiti – spiegava l’allora premier – non sono un prodotto di laboratorio. È troppo comodo e troppo facile sedersi intorno a un tavolo e decidere. Allora ci mettiamo un po’ di ambientalismo che va di moda, poi siamo un po’ di sinistra, ma come Blair che è sufficientemente lontano da noi. Poi siamo un po’ eredi della tradizione del cattolicesimo democratico, ci mettiamo un po’ di giustizialismo, che va di moda, e abbiamo fatto un nuovo partito. Lo chiamiamo in un modo che non dispiace a nessuno, perché ‘Verdi’ è duro, ‘Sinistra’ suona male, ‘Democratici’ siamo tutti, chi può essere contro un prodotto così straordinariamente perfetto? C’è tutto. Auguri, ma io non ci credo …”. Questa galassia che è il Pd del 2009 raccoglie attorno a sé un bacino potenziale massimo – nonostante tutto – di circa 15 milioni di elettori. Di cui meno della metà, composta da coloro che si dichiarano di centrosinistra e che hanno scelto il Partito Democratico sia alle Politiche del 2008 che alle Europee di quest’anno, potrebbe essere realmente convinto del progetto. Le attuali offerte politiche e culturali dei democratici sono tre, solo parzialmente rappresentate dagli uomini in campo candidati a segretario, e comunque frastagliate al loro interno.
Gli elettori del Pd sono in prevalenza uomini, in età avanzata, residenti al centro e nel nord-est (che ricomprende nella categorizzazione europea l’Emilia Romagna), in centri medio-grandi e metropolitani. Sono in prevalenza laureati, con un profilo professionale diversificato, ma composto soprattutto da pensionati, insegnanti e impiegati del pubblico. Non gli artigiani del nord, che, come ama raccontare Piero Fassino, chiedono disperatamente ai leader del Pd “di metterli in condizione di votare Democratico”. Ma probabilmente la parte della popolazione italiana più garantita, che difficilmente riuscirebbe a scegliere l’idea di partito progressista (letteralmente: che sostiene la possibilità del progresso e dellevoluzione della società ed è fautore di riforme che facilitino tale processo) presentata – con un logo verde acido e viola fluorescente – da Ignazio Marino e dai giovani (e meno giovani) di Piombino. Questa fetta di partito, pur essendo attualmente minoritaria, resta una mina vagante dall’impatto difficile da valutare. Tuttavia attraversa questa fase quale essenziale rito di passaggio per “vivere in anticipo il tempo a venire”, come scrive Giuseppe Civati nel suo libro “Nostalgia del Futuro”, rimandando all’immagine di una collina da valicare e su cui ergersi per scrutare l’orizzonte. Circa il 20% dell’attuale elettorato del Pd si dichiara ateo, agnostico o laico, si sente in netta prevalenza di sinistra anziché di centrosinistra, e nell’ultima campagna elettorale, pur votando Pd, ha dato giudizi più teneri ad Antonio Di Pietro e Nichi Vendola che a Franceschini. Per affinità, dunque, quest’area, che continua a guardare con simpatia anche il partito radicale, se dovesse scegliere con la pistola alla tempia tra l’attuale segretario e Pierluigi Bersani probabilmente appoggerebbe proprio quest’ultimo, rappresentante dell’anima post-comunista e più rossa del partito. Una vittoria di quest’ala potrebbe infatti ricompattare gli esuli verso sinistra e Italia dei Valori (fautori e vittime della controdipendenza), segnando una netta differenza di cultura – seppur non necessariamente programmatica – con l’Udc di Pierferdinando Casini. Forse una strada obbligata, anche a costo di lasciare al proprio destino la parte più fondamentalista del cattolicesimo di centrosinistra. La scelta più prudente delle tre sarebbe invece quella post-democristiana/ulivista, che però, in nome della continuità e del bipolarismo, rischierebbe di continuare a perdere pezzi verso il radicalismo (quello di sinistra e quello giustizialista) e verso il centro. Il bacino netto del Pd (circa 7 milioni di elettori, coloro cioè che alle ultime elezioni hanno preso in considerazione il partito guidato da Franceschini ma che hanno votato altro) assegna giudizi lusinghieri a Casini, Di Pietro e Vendola, evidenziando un elettorato frammentato che non vede il Pd come centro di gravità, e che a meno dello sbarco di un messia sarà difficile convincere, far convivere e sognare sotto un unico simbolo e un’unica bandiera. Con buona pace della vocazione maggioritaria.