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Perché Eni-Neptune è un affare anche geopolitico

Di Emanuele Rossi e Otto Lanzavecchia

L’acquisizione di Eni della società di private equity permette alla major italiana di rafforzare riserve e migliorare le metriche di CO2. E contemporaneamente estromette un fondo sovrano cinese da una quota di controllo in un settore sensibile e strategico

Con un’operazione dal valore altissimo, in termini sia economici che geopolitici, la major energetica italiana Eni ha annunciato di aver acquistato Neptune, società di private equity valutata 4,9 miliardi di dollari. Si tratta del più grande “cash deal” nel settore europeo del petrolio e del gas da quasi un decennio.

Neptune, con sede a Londra, produce petrolio e gas da giacimenti in otto Paesi, tra cui Regno Unito, Norvegia, Germania, Algeria, Paesi Bassi e Indonesia (dove già condivide una licenza con la società di San Donato Milanese). Secondo i termini dell’accordo annunciato oggi, venerdì 23 giugno, Eni acquisirà Neptune per 2,6 miliardi di dollari, mentre Var Energi — controllata norvegese dove Eni è al 63% — andrà a rilevare le attività della società in Norvegia per 2,3 miliardi di dollari.

IL VALORE DEGLI DROCARBURI (PER DECARBONIZZARE)…

La transazione è particolarmente significativa se si considera che le grandi compagnie petrolifere europee come Eni, BP e Shell, da quando hanno fissato gli obiettivi di riduzione delle emissioni di anidride carbonica e di passaggio a forme di energia più ecologiche, sono più propense a vendere asset di petrolio e gas che ad acquistarli. Ma l’amministratore delegato dell’Eni, Claudio Descalzi, ha dichiarato al Financial Times che il portafoglio di giacimenti di gas di Neptune, molti dei quali vicini ai mercati europei o con accesso a questi ultimi, rappresentava una “scelta eccezionale in questo momento”.

“È chiaro che la tendenza è quella di acquisire energie rinnovabili o altri progetti di energia verde”, ha commentato Descalzi. Tuttavia, “l’Eni prevede che la domanda di gas naturale, che ha emissioni di carbonio inferiori a quelle del petrolio, continuerà a crescere man mano che i Paesi utilizzeranno maggiormente questo combustibile nell’ambito della transizione verso le energie rinnovabili”. E dunque il Cane a sei zampe vuole che il 60% della produzione del suo gruppo sia costituito da gas entro il 2030.

Da quando hanno acquisito gli asset dall’utility francese Engie nel 2017 (per 3,9 miliardi di dollari), gli azionisti di Neptune hanno investito più di 4 miliardi di dollari nell’espansione della base di risorse, nella riduzione dell’intensità di carbonio delle operazioni e nello sviluppo del potenziale per la futura cattura e stoccaggio del carbonio, ha dichiarato Bob Maguire, amministratore delegato di Carlyle. “Per questo motivo, si tratta di un’azienda interessante. Rappresenta un’opportunità per un acquirente strategico come l’Eni sia per ricostituire la propria base di riserve […] ma anche di incrementare le proprie metriche”, ha aggiunto, sottolineando la minore intensità di carbonio di gran parte della produzione di Neptune, in particolare rispetto al petrolio convenzionale.

Nel Regno Unito e nei Paesi Bassi, Neptune sta anche sviluppando progetti di cattura e stoccaggio della CO2 che mirano a pompare più di 9 milioni di tonnellate di anidride carbonica all’anno da emettitori britannici e olandesi nei giacimenti esauriti della società. In caso di successo, ciò supererebbe le emissioni prodotte dalle operazioni della stessa Neptune e dall’uso del carburante che vende. Si tratta di una decisione commerciale, basata sull’ambizione di immagazzinare più carbonio di quanto ne viene emesso.

… E IL VALORE STRATEGICO DEL DE-RISKING DALLA CINA

Se l’acquisizione rappresenta un passaggio importante in termini economico-commerciali e ha attirato parecchia attenzione per come le sue dinamiche di inseriscono nel flusso della transizione energetica, non sfugge un fattore di carattere geopolitico e strategico. Il 49% di Neptune è infatti posseduto dalla società statale China Investment Corporation, mentre i gruppi di private equity Carlyle e CVC Partners possiedono rispettivamente il 30,6% e il 20,4%.

China Investment Corporation è un fondo sovrano che gestisce parte delle riserve valutarie della Repubblica popolare cinese. Le sue attività, insieme a quelle di altre struttura finanziarie amministrate dal Partito-Stato, hanno permesso ai fondi statali cinesi di investire centinaia di miliardi di dollari nelle economie occidentali (spesso con operazioni stabilite attraverso veicoli offshore), assumendo partecipazioni indirette in aziende di settori come la sanità, la tecnologia, l’industria, l’energia appunto — anche se le autorità di regolamentazione e i politici si stanno muovendo per ridurre la dipendenza economica dell’Occidente dalla Cina.

L’ingresso di Eni taglia il ruolo del colosso cinese in Neptune, riducendolo più in generale in un settore altamente strategico come quello della sicurezza energetica. Gli Stati europei stanno ancora gestendo gli effetti dell’eccessiva esposizione alle forniture russe, finite sotto gli effetti conseguenti all’aggressione in Ucraina, e il rischio di creare altre forme di vulnerabilità — come quelle di carattere finanziario — è persistente. Neptune è attivo in Europa e in Paesi strategicamente nevralgici come l’Algeria, attualmente primo forniture di gas italiano, e l’Indonesia, attore cruciale all’interno dell’Indo Pacifico. In questi termini, l’uscita dell’asset cinese è rilevante perché accorcia le leve di cui la Cina potrebbe disporre, à la Vladimir Putin col gas, per esercitare pressione sui Paesi africani e, di conseguenza, anche quelli europei.


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